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Aziende private e no profit: ecco chi salva la ricerca

Ogni anno lo Stato italiano investe nella scoperta e nello sviluppo di nuovi farmaci meno di 600 milioni, la metà dei tedeschi Il ruolo decisivo di imprese e donazioni

Marco Cobianchi Dom, 14/01/2018 – il Giornale.it

Quando la Boeing decide di costruire un nuovo modello di aeroplano sa che deve investire almeno 3,7 miliardi di dollari prima di poterlo vendere alle compagnie aeree di tutto il mondo.

Quando la multinazionale della farmaceutica Roche decide di realizzare una nuova medicina sa che deve spendere come minimo 2 milioni di dollari. Differenze siderali. La Boeing può permettersi di mettere in cantiere uno o al massimo due nuovi modelli mentre la Roche può (anzi, deve) investire su decine se non centinaia di progetti. Anche perché sa che deve aspettare almeno 12 anni per vederne uno arrivare sui banconi delle farmacie mentre la Boeing ha bisogno di, al massimo, 8 anni. E, d’altra parte, non tutti i farmaci sui quali si è investito diventano prodotti vendibili mentre un aereo, a meno di casi eccezionali, una volta che viene sviluppato non può che finire in commercio.

Poche cose al mondo sono più complesse e rischiose degli investimenti in nuovi prodotti. E questo vale soprattutto per il settore dell’healthcare: un settore talmente competitivo da obbligare le imprese ad investire una fetta di ricavi in ricerca e sviluppo molto più larga rispetto alle aziende di qualsiasi altro settore: il 14,7% rispetto, ad esempio, al 5,3% dell’elettronica.

Veniamo a noi. O, meglio, alle nostre imprese. Nel ranking mondiale delle aziende farmaceutiche che più investono in ricerca e sviluppo in ambito medico l’Italia non sfigura affatto. Secondo i dati della Commissione europea, elaborati dal sito di data-journalism Truenumbers.it, l’Italia piazza ben 4 società nella top 500. La prima è la Chiesi Farmaceutica, al 59esimo posto. Tra il 2016 e il 2017 ha investito 340 milioni di euro nello sviluppo di nuovi farmaci: il 12,6% in più rispetto al periodo precedente pari a oltre un quinto dei ricavi. In classifica ci sono anche la Recordati, la Diasorin e la Kedrion. Solo queste quattro imprese hanno investito 486,4 milioni di euro in ricerca e sviluppo. Una cifra notevole se si considera che la somma destinata a questo tipo di attività gestita direttamente dal governo italiano ogni anno è inferiore ai 600 milioni: 594,2. Si tratta della metà di quanto investe il governo tedesco centralmente (1,2 miliardi l’anno) e il 30% in meno circa di quanto spende Madrid. A questi 594,2 milioni spesi da Roma vanno comunque aggiunti almeno una parte dei soldi spesi dalle Università e dai loro centri di ricerca: 882,1 milioni. Una cifra importante, superiore a quella spesa dai centri di ricerca spagnoli, per esempio, ma che non regge il confronto con i 3,7 miliardi di euro gestiti dai centri di ricerca universitari tedeschi, con il miliardo e 300 milioni degli olandesi e con i 2 miliardi e 100 dei britannici.

In altre parole: la ricerca medica in Italia non è fatta principalmente dallo Stato, ma da ciò che sta fuori dal suo perimetro e cioè: imprese private e organizzazioni no profit. In effetti l’ammontare degli investimenti da parte delle grandi imprese è consistente, ma quello che è impressionante è che in Italia esiste uno straordinario «tappeto» di micro imprese che si occupano esclusivamente di ricerca in ambito sanitario e che spesso lavorano per i colossi. Secondo i dati di Federchimica il 66% delle aziende fino a 9 dipendenti impegnate nel settore della biotecnologia applicata alla salute umana, sono impegnate esclusivamente nella ricerca e non nello sviluppo di nuovi prodotti. Lo stesso vale per il 18% delle piccole imprese, per il 12% delle medie e per il 5% delle imprese fino a 250 dipendenti.

Ma soprattutto in Italia c’è una gigantesca attività svolta dalle organizzazioni no profit. In base ai dati dell’Unesco, che si riferiscono al 2014 (ultimo dato disponibile), il settore no profit che si occupa di ricerca medica raccoglie ogni anno 476,4 milioni di euro. La sola Telethon, per esempio, ha un bilancio di 56,9 milioni di euro (al 30 giugno 2017) dei quali 30,8 (in calo dai 35,2 dell’anno precedente) spesi nella ricerca scientifica. Questo significa che se dovesse arrivare una cura per le malattie rare è più probabile che esca dai laboratori di una piccola impresa o di un centro di ricerca privato che non dagli alambicchi pubblici.

Notizie correlate: AIFA. La ricerca sulla demenza di Alzheimer prosegue. Singole scelte aziendali non devono spegnere la speranza

Redazione Fedaisf

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