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Cassazione: parolacce al “capo”? Non sono reato.

Più di una volta la corte di Cassazione è intervenuta per capire se determinate espressioni potessero considerarsi offensive oppure no. Questa volta la Cassazione è tornata sull’argomento ed ha analizzato la valenza offensiva di alcuni insulti in relazione al contresto in cui sono stati pronunciati. In certi casi, secondo la Corte, parolacce e volgarità possono diventare persino costruttive e le si può quindi pronunciare senza commettere reato. E’ quallo che accade ad esempio quando gli insulti avvengono all’interno di un ufficio. Secondo la Cassazione a prescindere dalla "rozzezza" e "ineleganza" con cui ci si puo’ rivolgere ad un collega o a un superiore, ci sono situazioni in cui la volgarità può diventare un modo per "sollecitare" il dibattito sul lavoro. Anzi, in certi casi l’insulto può essere persino diretto volutamente a migliorare l’ organizzazione dell’azienda. Da quanto emerge da una sentenza del palazzaccio (la n.17672/2010) d’ora in avanti un capo troppo burocrate potrebbe sentirsi dare del "pazzo" o dello "scemo" senza che per questo si debba sentire offeso. Anche a livello trasversale ci si potrà concedere l’insulto: ad un acritico e che accetta ordini passivamente dalla dirigenza si potrebbe dare dello "yesman" o "per dirla in termini piu’ volgari", scrive la Corte del ‘leccac..’. La vicenda era nata all’interno di uno studio legale quando durante una discussione un collaboratore dello studio stanco di come veniva portato avanti il lavoro si era sfogato con due colleghe ed aveva detto "basta, ho deciso, io con l’avvocato ci parlo, ci discuto non sono come la collega che dice sempre ‘si’ avvocato…certo avvocato…Il capo e’ un ‘pazzo’, vuole restare circondato da ‘leccac.’ bene ci resti pure…". Allo sfogo seguiva anche il mimo dello yesman e il caso finiva nelle aule del Tribunale. Non tanto per i colleghi che comunque avevano deeciso di lasciar perdere ma per il titolare dello studio che ha voluto denunciare il collaboratore. Nel dicembre del 2008 la Corte d’Appello accertava la prescrizione del reato ma condannava il collaboratore a risarcire il capo. Il caso finiva poi in Cassazione dove la Corte ribaltando il verdetto assolveva il giovane avvocato "perche’ il fatto non costituisce reato" dando a quegli insulti una valenza "costruttiva". (Data: 08/05/2010 17.16.00 – Autore: Roberto Cataldi)

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