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Compliance, nuova frontiera.

Si può ben pensare, producendo automobili o lavatrici, che l’arrivo di un nuovo modello possa scalzare senza eccessivi problemi il precedente, anzi deve farlo. Lo si può pensare anche di un farmaco? Non pare e per molti buoni motivi. Il che spiega come mai,  anche da parte del marketing, si incominci a porsi il problema di come puntare, oltre che sulla diffusione dei prodotti, anche sulla fidelizzazione dell’utente, in altre parole sulla compliance. Ma anche sulla “adherence”. Infatti, anche se l’abitudine a tradurre in italiano compliance con adesione o aderenza, i due termini non sono sovrapponibili, anzi. Come è stato ribadito anche al recente 3rd Annual Patient Compliance and Adherence Congress (Filadelfia, 2 dicembre 2006), la compliance si ha quando il paziente in trattamento osserva dosaggi e somministrazioni prescritte dal medico, l’adherence si ha quando il paziente provvede a far ripetere la prescrizione, ovviamente se si tratta di trattamenti cronici o comunque a lungo termine. Se, come si è detto più volte, il futuro è dei trattamenti di nicchia, la chiave della redditività non sta più nell’arruolamento di nuovi pazienti, quanto, appunto, nel meccanismo della fidelizzazione. Il che non è una questione semplice. Intuitivamente, il marketing dovrebbe puntare a ottenere la massima adherence possibile, la ripetizione della prescrizione, ma questo obiettivo ha come premessa la compliance. Se quest’ultima non c’è, è arduo che il paziente abbia buoni risultati e, quindi, sia incentivato a far ripetere la prescrizione. Peraltro, distinguer tra i due aspetti, sulla base dei soli dati di vendita, pur essendo possibile, è cosa che richiede strumenti matematiuci piuttosto sofisticati, altrimenti si corre il riuschio dell’effetto “pollo di Trilussa”.
C’è anche chi vede in questa necessità di attenzione alla fidelizzazione una sfida ardua per la stessa organizzazione delle aziende. Mediamente, il product manager resta sul prodotto un paio d’anni, poi passa ad altro, soprattutto se ha avuto successo. In questo modo, compliance e adherence sono sempre “un problema di chi verrà dopo”. Vero o meno che sia questo timore, sta di fatto che anche la stessa comunicazione va in qualche modo ritarata. Negli Stati Uniti, dove la comunicazione al medico è ormai affiancata stabilmente da messaggi paralleli al pubblico, ci si è chiesti se arruolare testimonial del mondo dello spettacolo o simili sia una strategia ugualmente valida quando si punta alla fidelizzazione. Che si presenti il Magic Johnson della situazione a dire che il tal farmaco è buono e fa bene, può essere utile ad arruolare nuovi pazienti (sempre che possano scegliere liberamente, cosa che anche le assicurazione e le HMO stanno rendendo meno frequente), ma non è detto che possa funzionare  a garantire l’adesione alla terapia. In parecchi, infatti, si chiedono se non sarebbe più adatto a questo scopo il cosiddetto social networking, cioè l’azione attraverso gli animatori delle chat di pazienti, oppure i cosiddetti pazienti opinion leader, quali possono essere, per esempio, le persone impegnate nelle associazioni di pazienti. Ovviamente i messaggi, a questo punto, dovrebbero essere unbranded, come quelli dedicati alle campagne educative sulla natura delle malattie. Certamente, è abbastanza evidente come pochi vorrebbero veder caricare sul proprio prodotto anche i costi di questo tipo di azione. D’altra parte, negli Stati Uniti i programmi di formazione-educazione rivolte al medico sono orma scorporati dal Mmarketing, e contano su propri budget e questa potrebbe essere la strada da seguire anche per le campagne unbranded rivolte al paziente. Queste, alla finm, possono generare un ritorno, ma certo non nei tempi nel quali di norma hanno efficacia le campagne di lancio.
Da  “PharmaMarketing”

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