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Il Jobs Act alla francese

A differenza dell’Italia scioperi e proteste in tutto il paese. Il governo, che ha chiuso la strada del confronto sia sociale che parlamentare, ha prodotto una reazione popolare che si sta radicalizzando. Un recentissimo sondaggio ha mostrato come il 78% dei francesi sia tuttora contrario alla legge.

Nell’opposizione al progetto di legge il fronte sindacale non è unito. La diversa valutazione dei contenuti della riforma ha prodotto una frattura, con Cgt, Force Ouvriere e Solidaire impegnate a chiederne il ritiro e la Cfdt disponibile al confronto

di Italo Stellon, Esperienze 20 maggio 2016

Il senso della situazione è ben concentrato nella dichiarazione del deputato socialista Jean-Marc Germain fatta qualche giorno fa all’emittente France Info e rivolta al primo ministro Manuel Valls con l’obiettivo di “fermare i giochi” attorno alla legge sul lavoro messa in campo dal governo francese. “S’il y a un 49.3 à nouveau sur ce texte, c’est un drame absolu, on n’en sortira jamais” (“Un nuovo ricorso alla procedura denominata 49.3 sul testo del governo sarebbe veramente un dramma e nessuno ne uscirà mai”).

Cosa può evitare il ricorso alla procedura d’eccezione (che ha l’effetto del nostro “voto di fiducia”, ma senza passare necessariamente per il voto dell’Assemblea nazionale) prevista dalla Costituzione francese? Ad avviso di Jean-Marc Germain è necessario che il governo accolga alcuni importanti emendamenti proposti dai parlamentari, attivando un tavolo di confronto con il primo ministro per una soluzione di compromesso. Quanto è accaduto il 12 maggio scorso in Francia, con l’adozione in prima lettura da parte del Parlamento della legge, entrerà ovviamente nella storia di questo Paese e in particolare per due ragioni: la reazione popolare che si sta radicalizzando; lo scontro all’interno del partito socialista che a oggi non provoca scissioni, ma che rischia veramente di implodere.

La determinazione con cui il governo socialista in Francia è intervenuto sulla legislazione del lavoro si è risolta martedì scorso con l’adozione di una manovra che ha di fatto negato il voto dell’Assemblea nazionale su un pacchetto legislativo dalle conseguenze rilevanti dal punto di vista politico, sociale, sindacale. L’iniziativa dà al tempo stesso la misura della profonda impopolarità del presidente Hollande e del livello di crisi che attraversa il partito socialista. Il primo ministro Valls ha fatto appello all’articolo 49, paragrafo terzo, della Costituzione per forzare l’approvazione della cosiddetta “legge Khomri” di fronte all’opposizione di decine di deputati dello stesso partito socialista.

L’opposizione al progetto di legge è stata accompagnata da un’intensa azione sindacale, con scioperi e proteste in tutto il paese. Ma anche il fronte sindacale si è trovato disunito. La diversa valutazione sulla legge e sulle modalità del confronto ha prodotto una frattura, che a oggi appare insanabile con Cgt, Force Ouvriere, Solidaire e altre centrali impegnate a contestarne i principi e chiederne il ritiro, e la Cfdt, in particolare, disponibile al confronto di merito alla ricerca di possibili miglioramenti. Il fatto è che la decisione del governo ha chiuso la strada del confronto sia sociale che parlamentare e l’invocazione di Jean-Marc Germain appare semplicemente un auspicio senza margini di concretizzazione.

Conseguentemente, le avvisaglie di radicalizzazione dello scontro si stanno evidenziando in tutta la loro preoccupante escalation. Il governo francese continua a sostenere che la “legge Khomri” è necessaria per dare un impulso all’occupazione nel Paese, prendendo a esempio quanto è avvenuto in Italia con il Jobs Act. I modesti cambiamenti della legge determinati dall’ampiezza della protesta, mentre non vengono considerati sufficienti dalla parte maggioritaria delle organizzazioni sindacali, hanno spinto gli industriali a ritirare il proprio appoggio al provvedimento, in quanto le timide aperture non andrebbero nell’indicazione da loro suggerita e poco importa che un recentissimosondaggio ha mostrato come il 78% dei francesi sia tuttora contrario alla “legge Khomri”.

Sfruttando quanto previsto all’articolo 49 della Costituzione, il Consiglio dei ministri ha deciso di fare approvare una legge senza il voto della Camera Bassa (Assemblea Nazionale). In tal caso, la legge passa ora direttamente all’attenzione del Senato e, in caso di approvazione, torna di nuovo all’Assemblea Nazionale, dove però il governo ha sempre la facoltà di appellarsi allo stesso articolo 49. L’unica arma a disposizione dei deputati per bloccare è la presentazione, entro 24 ore, di una mozione di “censura” firmata da almeno un decimo dei membri dell’Assemblea. Il voto su tale mozione dovrà poi avvenire entro due giorni e, nel caso essa ottenga la maggioranza, la legge è respinta e il governo viene di fatto sfiduciato.

La mozione presentata dall’opposizione di centro-destra sicuramente con valutazioni opposte a quelle che caratterizzano la mobilitazione sociale, non è in ogni caso in grado di essere approvata se non con il voto di una sessantina di deputati socialisti. Anche il tentativo dei partiti della sinistra all’Assemblea Nazionale di presentare una loro mozione di “censura” contro il governo, è fallito per la mancanza di due firme sulla petizione. Per la stampa francese, i deputati socialisti firmatari sarebbero stati appena una trentina.

Le manifestazioni del 12 maggio hanno evidenziato la gravità della situazione. La radicalizzazione dello scontro sta producendo i suoi effetti e le tensioni si sono misurate a Parigi, Tolosa, Lille e in tante altre iniziative. Contestualmente, la stessa mobilitazione popolare rischia di veder ridotta la partecipazione mano a mano che le tensioni tendono a salire. La fragilità sindacale, determinata dalla mancanza di unità e dalla difficoltà di una proposizione unitaria delle stesse organizzazioni che stanno reggendo tutto il peso della lotta, non può non essere un segnale d’allarme sul quale riflettere.

È vero che l’opinione pubblica resta contraria alla nuova legge e che l’uso delle procedure adottate è unanimemente considerato antidemocratico, in particolare su questa materia, ma, nonostante ciò, si sente il vuoto propositivo sia sul versante dell’opposizione politica, sia sul versante sindacale. Se, per quanti oggi manifestano, il progetto rimane inaccettabile e per questa ragione va ritirato, il ritiro non è all’ordine del giorno e l’apertura concreta di un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali non lo è altrettanto. Le due giornate di lotta del 17 e 19 maggio ne sono l’evidente conseguenza.

In tutto ciò l’Europa è la grande assente. La presentazione a Bruxelles il 4 maggio al Parlamento europeo della proposta di legge di iniziativa popolare sviluppata dalla Cgil ha segnato un possibile punto di ripartenza del sindacalismo europeo su una materia troppo segnata dalle chiusure nazionalistiche. Si tratta di vedere se e come la Ces sarà in grado di raccogliere il testimone e di adattarlo alla dimensione europea. Nello stesso tempo sarà interessante capire se e come lo stesso testimone sarà ripreso dalle forze politiche presenti nel Parlamento Ue.

L’assenza di una posizione comune nelle forze sindacali europee rischia di favorire una deriva oramai dirompente e tutta tesa a cancellare decenni, se non secoli, di storia. Per questo alla comunità italiana residente in Francia quanto sta accadendo appare un film già visto, al punto che dai manifestanti il nostro Paese appare come l’apripista politico di questa deriva neoliberista messa in campo da forze che, almeno a parole, dovrebbero rappresentare le istanze progressiste.

Italo Stellon è presidente Inca Francia

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Redazione Fedaisf

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