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Ministro Turco, e l’omeopatia?

In Italia si parla – e si scrive – di tutto nel campo della salute. Nel bene e nel male. Un giorno scoppia lo scandalo del Policlinico, un altro conquista le luci della ribalta la ricerca sulle cellule staminali embrionali amniotiche; si guadagnano i titoli principali dei media ora l’inchiesta a tappeto sulle condizioni igienico-sanitarie degli ospedali, ora il successo delle vendite dei farmaci da banco al supermercato. La grande enfasi mediatica non è solo merito dell’importanza delle notizie, ma anche dei cittadini, sempre più convinti, e a ragione, che il loro benessere è una variabile dipendente della medicina, della ricerca, della sanità. Eppure resta un “buco nero” nell’informazione: è quello delle medicine non convenzionali, sulle quali si fa finta di nulla, nonostante dieci milioni di persone vi ricorrano, più o meno saltuariamente, per curarsi. Come mai? La comunità scientifica è molto scettica e chiusa; di ricerca se ne fa poca e quella che ottiene buoni risultati passa in sordina; inoltre non rappresentano una significativa quota di mercato e le aziende fanno poca pubblicità.
A sollevare un velo su questa realtà terapeutica “parallela” è stato, indirettamente, il recente viaggio del ministro della Salute. Livia Turco è andata in Cina per siglare accordi con il governo locale. Tra gli italiani che ricorrono alle “altre” cure, molti si affidano alla Medicina Tradizionale Cinese, finendo spesso nelle mani di persone non sempre specializzate. Per qualificare meglio gli operatori, già nel passato erano stati approvati alcuni master universitari (se non erriamo, dall’ex ministro Sirchia), con l’avvio di una sperimentazione clinica nelle università di Roma e Milano. Ora la Turco ha firmato un programma di integrazione che prevede lo sviluppo di corsi di insegnamento post-universitari, sotto la supervisione delle autorità cinesi, per preparare gli esperti italiani che applicano queste terapie. Un’altra parte dell’accordo riguarda i farmaci: è stato confermato, in base alla normativa europea, che potranno entrare i prodotti di origine vegetale più noti e riconosciuti per il loro effetto terapeutico. Dal ministero fanno sapere – a scanso di equivoci – che non arriveranno i medicinali a base di scorpioni e serpenti…
Insomma la Cina è sempre più vicina. Eppure non basta dichiarare guerra ai ciarlatani per costruire una vera integrazione tra le diverse medicine: finché non ci sarà reale riconoscimento delle “altre” cure attraverso i Livelli essenziali di assistenza, avremo sempre terapie di serie A e di B (e via, a scendere). Non dimentichiamo che più o meno saltuariamente circa due milioni di italiani si affidano all’agopuntura, e che tale pratica medica è riconosciuta da gran parte delle Regioni e, di conseguenza, accessibile in centinaia di ambulatori. Sul piano nazionale l’agopuntura non esiste, nonostante numerosi studi scientifici e continue sperimentazioni ne sanciscano l’efficacia.
Estendendo il ragionamento non si può non parlare di omeopatia, che conta un numero di pazienti ben superiore rispetto all’agopuntura. Anche l’omeopatia viene eseguita da bravi medici ed è applicata (dietro pagamento di un ticket) in tantissimi ambulatori pubblici della maggioranza delle Regioni. Ma oggi si diventa omeopati seguendo dei corsi privati. L’unica Università che insegna la “materia” è quella di Medicine naturali di Milano; poi ci sono rari corsi post-universitari. Le contraddizioni sono evidenti: da un lato milioni di pazienti, migliaia di professionisti, i governi e le strutture sanitarie locali; dall’altro il vuoto e l’opposizione di una parte influente dell’Accademia (come il Comitato nazionale di bioetica), e il disinteresse delle università. Diamo il benvenuto ai medici c

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