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Storie di ISF. La povertà che c’è e merita risposta

Nubile, ha lavorato per vent’anni come informatore scientifico, poi ha dovuto licenziarsi per assistere la madre malata. Quando la madre è morta, a 50 anni, non è più riuscita a trovare occupazione e non riesce a scordare l’umiliazione dello sfratto. Vive con 181 euro mensili del sussidio comunale, sei al giorno.

15 ottobre 2014 S. Teresa d’Avila – Avvenire.it

Ho incontrato Daniela tempo fa in un dormitorio comunale alla periferia di Torino gestito dal Gruppo Abele. Un luogo pulito e dignitoso, ricavato in una fabbrica dismessa dove le ospiti, donne che hanno perso il lavoro e sono rimaste sole e senza casa, entrano alle 19 per la cena ed escono la mattina dopo la colazione. Vite normali, finite nell’abisso. Come Daniela, che ha da poco superato i 50 anni. Nubile, ha lavorato per vent’anni come informatore scientifico, poi ha dovuto licenziarsi per assistere la madre malata. Era il 2007. Cinque anni dopo, quando la mamma è morta, lei compiva il mezzo secolo e finiva i risparmi di una vita. Non è più riuscita a trovare occupazione e non riesce a scordare l’umiliazione dello sfratto. Vive con 181 euro mensili del sussidio comunale, sei al giorno.

Anche Carla vive di sussidio a neppure 40 anni, alle spalle ha una violenza familiare e un matrimonio finito con un uomo che di giorno faceva l’ambulante e di sera, a sua insaputa, spacciava droga e l’ha lasciata nei guai. Ha fatto la lavapiatti e la panettiera, sempre con contratti interinali. Poi più nulla. Si domanda spesso se per lei ci sia ancora futuro. Le loro compagne di stanza sono quasi tutte esponenti del ceto medio impoverito, categoria che in realtà come questa assume nomi e volti precisi. Sono maestre precarie rimaste senza cattedra oppure operaie o commesse di mezza età, licenziate. Donne con l’unica colpa di essere povere, sole e senza reddito in un Paese il cui welfare è fermo al secolo scorso. Torino è nel Nord ancora ricco e i suoi servizi sociali sono tra i migliori. Ma ogni centro di accoglienza e ogni mensa di carità può confermare il forte aumento di casi come questi.

Se l’Italia avesse avuto, come ne sono dotati tutti i grandi Paesi europei, una misura come il reddito di inserimento, il ceto medio impoverito e quelle persone che vivono sul bordo dell’emarginazione avrebbero oggi più dignità e maggiori speranze di ricominciare. L’Alleanza contro la povertà, guidata da Acli e Caritas, che ieri ha presentato la proposta di una legge che istituisca un reddito minimo, stima che la spesa a regime per dotarci di questo strumento sia di 7 miliardi. Ne beneficerebbero almeno 4 milioni di persone. Sarebbe l’1% della spesa primaria corrente, non aggraverebbe enormemente il debito pubblico. Certo, il problema è capire, con il tasso di evasione che abbiamo, chi sia davvero povero. Ma questo non pare un ostacolo insormontabile né deve diventare un alibi per rimandare una riforma poco appariscente, ma decisiva per il futuro di una parte d’Italia non rappresentata e dimenticata da troppi.

Redazione Fedaisf

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