Farmaceutica. Quale criterio per definire il prezzo di rimborso dei farmaci?

Nel prezzo finale, incide il costo dell’informazione scientifica? L’equilibrio ideale dovrebbe giacere nel punto d’incrocio delle bisettrici tra sostenibilità dei budget pubblici, equo accesso a tutti i pazienti che ne abbisognano, giusta remunerazione per l’industria e la filiera. Significano disponibilità finanziaria a coprire l’assistenza, a curare senza discriminazioni, a reinvestire per ottenere farmaci sempre più efficaci.

23 SET – Qual’ è il prezzo giusto per un farmaco? E come calcolarlo? “Crocevia epocale tra etica ed economia”, ha commentato il presidente dell’Aifa Pecorelli. La questione, riaccesa in questi giorni dalla vicenda del prezzo e della rimborsabilità degli antiepatite C, la cui spesa sbancherebbe letteralmente il Ssn, è ormai al primo punto nell’agenda della sostenibilità di tutte le sanità pubbliche.

L’equilibrio ideale del sistema dovrebbe giacere nel punto d’incrocio delle bisettrici tra sostenibilità dei budget pubblici, equo accesso a tutti i pazienti che ne abbisognano, giusta remunerazione per l’industria e la filiera. Significano disponibilità finanziaria a coprire l’assistenza, a curare senza discriminazioni, a reinvestire per ottenere farmaci sempre più efficaci.

L’Aifa a quel baricentro da alcuni anni si avvicina meritoriamente, facendo dell’Italia uno dei Paesi con la migliore assistenza farmaceutica, con una spesa tra le più basse in Eu e Ocse, ma con prezzi medi tra i più bassi e facendo leva su tetti e payback a carico d’industria e filiera. Per raggiungere quell’equilibrio ideale di cui sopra, quel crocevia, un esemplare “ottimo paretiano”, quali dovrebbero essere da parte dell’Autorità i criteri di definizione del prezzo a carico del Ssn, cioè della collettività?

Nell’economia classica, da Smith a Ricardo fino all’ortodossia di Marx, il valore del prodotto è costruito sul costo dei fattori produttivi impiegati (materie prime, lavoro, capitale, ecc.) cosicché il prezzo deriva da tale ammontare con aggiunto il margine della filiera. È quello che potremmo definire il valore “industriale” del prodotto. Avveniva così anche da noi per i farmaci, fino al 1994, coi cosiddetti “Metodo CIP costi” e successivamente “CIP 2”. È più o meno quanto pure avviene oggi in aree, al pari del farmaceutico, ad economia controllata dalla mano pubblica, come con le principali “commodities” (luce, gas, acqua). Si costruisce il prezzo sulle spese di produzione, distribuzione, gli ammortamenti di quelle per ricerca e sviluppo, commercializzazione e il margine di produttore e filiera distributiva.

Invece quella utilizzata oggi per i farmaci, in particolare gli innovativi, è una metodologia che si basa sull’impostazione marginalista, teoria nata a fine ‘800 con Jevons e Menger e più tardi rivitalizzata, tra gli altri da Marshall e Clark: il valore del prodotto riflette il grado di utilità attribuitagli dai consumatori-utilizzatori che lo pagano, nel nostro caso il Ssn ovvero la collettività.

Il criterio generale di fondo utilizzato da noi come nella maggioranza dei Paesi Ocse è quindi basato prevalentemente sul valore apportato dal farmaco. Una metodologia sulla carta condivisibile ma dall’applicabilità, nei fatti, dalle non poche criticità. Un esempio recente piuttosto esemplificativo è nella vicenda Lucentis-Avastin, dove l’elevato differenziale di prezzo per dose assegnato ai due farmaci dal principio attivo simile, quasi sovrapponibile, ci dice come a diverse indicazioni terapeutiche siano andati livelli di prezzo molto diversi persino di un fattore 10.

In altre parole, quindi, nel criterio di definizione del prezzo dei farmaci, in particolare degli innovativi, da parte dell’Autorità prevale la finalità del bene sulla sua consistenza, sulle caratteristiche intrinseche dello stesso. Con questo approccio paghiamo (il Ssn, ovvero noi come collettività) un farmaco non per il suo valore intrinseco come “bene” di produzione, così come avviene per la stragrande maggioranza dei beni commerciali, fatta forse eccezione per le griffe e l’alta moda o certe tecnologie dal forte “brand”, ma per il beneficio che è in grado di apportare.

Tuttavia questo sembra avvenire da noi in modo apparentemente discontinuo: ad esempio, il prezzo di diversi innovativi, come in onco-ematologia, capaci di prolungare la sopravvivenza media di alcuni mesi, è pari anche a decine di migliaia di euro per paziente, mentre farmaci come antipertensivi, PPI, antibiotici o statine, pure dal beneficio collettivo indubbio (morti, invalidità e accidenti evitati), costano pochi centesimi al giorno.

Nell’approccio “marginalista” al prezzo di rimborso di un farmaco il valore tuttavia è per niente facile da calcolare equamente: come assegnare un “punteggio” al beneficio dato da quel farmaco? E quindi poi come monetizzarlo in un “prezzo” che la collettività, il Ssn, è disposto a pagare?
Sono le criticità dei metodi di valorizzazione dell’utilità incentrate sull’elaborazione statistica dell’insieme delle preferenze individuali, queste basate su scale (Rating Scale), probabilità (Standard Gamble), o tempi (Time-Trade-Off) e di loro conseguente monetizzazione basata sulla produttività individuale guadagnata (Human Capital) o di disponibilità a pagare (Willingness To Pay).

In sintesi, come quantificare esattamente il grado di beneficio e conseguentemente come e quanto monetizzarlo come prezzo del bene capace di apportare quel beneficio stesso. Entrambi non possono che essere valori medi espressione delle preferenze di chi paga, in questo caso la collettività, intesa come popolazione di pazienti ma anche di soggetti sani (il Ssn si finanzia con la fiscalità generale). Sono delle proxy di valori medi tuttavia scaricate di significato concreto dalla loro elevatissima variabilità (deviazione standard): il ricco e il povero, il giovane o il vecchio, il sano o il malato, l’ottimista o il pessimista, attribuiranno a quel certo beneficio clinico punteggi diversissimi l’uno con l’altro, così come li valorizzeranno monetariamente in modo profondamente differente.

Quali criteri adottare, quindi? Prezzo sul valore “terapeutico” come avviene oggi, o su quello “industriale” in alternativa? O un mix sapientemente dosato di entrambi? Chiara la preferenza per il primo dato che parliamo del massimo plusvalore generato, quello di salute, individuale e collettiva.
Che tuttavia presenta un risvolto della medaglia a dir poco critico, come avviene in UK, dove se il costo necessario per guadagnare un anno di vita (QALY) è superiore a una certa soglia, oggi 40mila sterline, il farmaco non è rimborsato dal Nhs perché il costo-opportunità sarebbe troppo elevato, cioè per quel beneficio per un solo paziente si toglierebbero “troppe” risorse al sistema, ovvero agli “altri” pazienti (un approccio lutero-anglicano certamente buono per Canterbury e similari latitudini, ma di difficile asilo all’ombra del Cupolone).

Insomma, metodo classico e/o marginalista, la questione del prezzo dei farmaci è di quelle davvero spinose. Tuttavia l’obiettivo deve restare il più possibile vicino all’incrocio di quelle bisettrici di cui sopra, tra sostenibilità, equità e qualità dell’assistenza e giusta remunerazione di produttori e filiera. Significano welfare, politiche industriali di sviluppo e progresso sociale e sanitario. Tutto in una fiala o in una compressa. “Crocevia epocale tra etica ed economia”. Una riflessione attenta e competente in merito non è rimandabile.

Fabrizio Gianfrate

23 settembre 2014 – quotidianosanità.it

Notizia correlata: Accesso ai farmaci e sostenibilità dei sistemi sanitari, convegno di AIFA a Milano

NOTE:

AIFA. Negoziazione e rimborsabilità

Prezzo dei farmaci (l’evoluzione delle norme dal 1979 al 1998)

COMITATO INTERMINISTERIALE DEI PREZZIDELIBERAZIONE 2 ottobre 1990  

Determinazione del prezzo al pubblico.
  Il  prezzo  al  pubblico delle singole confezioni di specialita' e'
fissato applicando al  valore  del  principio  attivo  -  cosi'  come
determinato  dall'apposita commissione - funzioni atte a remunerare i
seguenti fattori di costo:
   spese  generali  (SG),  calcolate secondo una formula funzione dei
tempi di produzione  e  confezionamento  moltiplicati  per  il  costo
orario   della   manodopera   e  variabili  al  variare  delle  forme
farmaceutiche,  raggruppate  in:   orali   solide,   orali   liquide,
iniettabili  liquide,  polveri  piu'  solventi, liofilizzate, pomate,
supposte e varie;
   spese di informazione medico-scientifica (IMS), calcolate, secondo
una formula funzione lineare delle spese generali;
   remunerazione  del  capitale  (RC),  calcolata secondo una formula
funzione lineare del valore del principio attivo.
  La formula finale per la determinazione del prezzo ex fabbrica (RI)
delle singole confezioni di specialita' medicinali e' pertanto:
                       RI = PA + SG + IMS + RC
  La  determinazione del prezzo al pubblico si ottiene aggiungendo al
prezzo ex fabbrica il margine per la distribuzione (attualmente  pari
al  33%,  di  cui  il  25% per il farmacista e l'8% per il grossista)
nonche' l'aliquota IVA.

 AIFA. Il prezzo dei farmaci in Italia (BIF 2001)

Legge 24 novembre 2003 n. 326

CIPE. DELIBERAZIONE 1 febbraio 2001 (ora vigente)

Definizione del prezzo contrattato.
  Nel  processo negoziale le parti rappresentate dall'azienda e dalla
amministrazione  dovranno,  ai  fini  della  definizione  del prezzo,
corredare le proprie proposte con adeguate valutazioni economiche del
prodotto   e   del   contesto   industriale   (con  riferimento  agli
investimenti  in produzione, ricerca e sviluppo e alle esportazioni),
di  mercato  e  di  concorrenza  nel  quale  il  medesimo prodotto si
colloca.
  La  procedura negoziale si conclude in caso di accordo tra le parti
con  la fissazione di un prezzo sulla base degli elementi indicati

N.d.R.: dai documenti sopra riportati possiamo così semplificare e riassumere:

Fino al 1979 era in vigore il metodo “Sanità”, ovvero il riconoscimento analitico di alcune voci di costo (materie prime, manodopera, confezionamento), ed il riconoscimento forfettario delle restanti voci.

Dal 1979 al 1987 era invece vigente il metodo “CIP-costi”, attraverso il quale si inserivano altre voci (ricerca scientifica, incentivazione.)

Dal 1987 al 1993, attraverso il metodo dei “coefficienti”, il prezzo dei farmaci si otteneva sommando il valore del principio attivo, delle spese generali, delle spese per l’Informazione Medico-Scientifica e quelle per la remunerazione del capitale.

In seguito, dopo gli scandali che nel settembre 1993 avevano coinvolto il Direttore Generale del settore farmaci del Ministero della Sanità, Duilio Poggiolini, e lo stesso ministro De Lorenzo (vedi l’interessante libro “Mister & lady Poggiolini” di Montanaro e Ruotolo, ed. Pironti), nel dicembre dello stesso anno la legge 537/1993, all’art 8, stabiliva che i prezzi delle specialità medicinali venissero sottoposti a regime di sorveglianza e non potessero superare la media dei prezzi europei.

Successivamente, la legge 662/1996 inseriva, per i nuovi farmaci, il criterio della contrattazione dei prezzi con il Ministero attraverso criteri stabiliti dal CIPE, o in alternativa la collocazione degli stessi in fascia C.

Con la finanziaria del 1998 veniva poi diversificato il prezzo dei medicinali industriali: “negoziato” per i nuovi farmaci a registrazione comunitaria, “medio-europeo” per i farmaci dispensati dal SSN, “libero”, ma “controllato”, per i farmaci di fascia C.

Con la deliberazione n°3 del 2001 il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) individuava i criteri per la contrattazione del prezzo dei farmaci, e successivamente con la legge 326/2003 all’Aifa veniva attribuito l’incarico di sviluppare detta contrattazione con le aziende del farmaco Le spese per l’Informazione Scientifica vengono genericamente accorpate alle spese di Ricerca & Sviluppo.

Possiamo pertanto ritenere che la quota di prezzo attribuibile in modo specifico all’informazione scientifica abbia cessato di essere conteggiata solo a partire dal 2001, rimanendo tuttora in vigore sino alla scadenza della validità brevettuale di quei farmaci autorizzati alla dispensazione gratuita prima del 2001.

Nota:

La frase “ricerca e sviluppo”, ha un’importanza commerciale speciale oltre alla relativa associazione convenzionale alla ricerca e sviluppo tecnologico. Nel contesto del commercio, la “ricerca e sviluppo” si riferisce normalmente ad attività a lungo termine, orientate al futuro, nella scienza o tecnologia, imitando la ricerca scientifica in un apparente disinteresse per i profitti.

Statistiche sulle organizzazioni dedicate alla “R&S” possono esprimere la condizione dell’industria, del grado di concorrenza o dello stato del progresso scientifico. Indici di misura comuni includono: budget, numero di brevetti o giudizi sulle recensioni delle pubblicazioni scientifiche. Le valutazioni della banche sono una delle misure migliori, perché sono effettuate continuamente, pubblicamente e riflettono il rischio.

Negli Stati Uniti, un rapporto tipico degli investimenti in ricerca e sviluppo, per un’azienda industriale, è circa il 3,5% del fatturato. Un’azienda ad alta tecnologia, come un produttore di computer, può spendere il 7%. Alcune organizzazioni molto aggressive spendono fino al 40% e sono famose per la loro alta tecnologia. Le aziende in questa categoria includono le grandi aziende farmaceutiche come Merck & Co. o Novartis e le aziende di ingegneria come Hewlett-Packard, IBM, Pratt & Whitney o Boeing. Queste aziende prosperano generalmente soltanto nei mercati in cui i loro clienti hanno bisogni estremi, come medicinali, strumenti scientifici, apparati sicuri (velivoli) o armamenti militari ad alta tecnologia. I bisogni estremi giustificano i margini lordi dal 60% al 90% delle entrate. Cioè i profitti lordi saranno fino a 90% del costo delle vendite, con la produzione che costa soltanto il 10% del prezzo del prodotto. La maggior parte delle aziende industriali ottengono profitti solamente del 40%. Gli alti margini compensano abbondantemente gli alti costi di gestione delle organizzazioni con una R&S dispendiosa. Generalmente le più grandi compagnie tecnologiche non solo hanno gli staff tecnici più ampi, ma ne ricavano valore in maniera più abile.

 

Commissario Ue, prezzi competenza Stati ma fare squadra

Possiamo aiutare nello scambio di informazioni per arrivare a posizione comune

Sui prezzi dei farmaci “la competenza esclusiva è degli Stati membri” le cui autorità regolatorie li negoziano con le aziende. Ma in Ue “si può fare squadra e la Commissione può aiutare nello scambio di informazioni fra i Paesi per arrivare a una posizione più comune verso le aziende farmaceutiche, che devono fare profitti ma allo stesso tempo fare in modo che i farmaci siano accessibili a tutti”.

Lo spiega il commissario europeo per la Salute Tonio Borg, al termine del Meeting informale dei ministri della Salute Ue che si è tenuto a Milano. “Ho imparato che quando c’è un problema tutti guardano verso Bruxelles – sottolinea Borg – ma la Commissione oggi può solo dare una mano agli Stati membri agevolando lo scambio di informazioni” per favorire un allineamento su questo fronte. “In Ue c’è comunque già un accordo per l’acquisto congiunto di farmaci per certi tipi di malattie, per evitare eventuali speculazioni sul prezzo.

Anche la Romania si è associata all’accordo firmato a giugno a Lussemburgo”. Il Meeting è stato occasione per un dibattito sui farmaci innovativi e sul prezzo unico europeo. “Molti Paesi – riepiloga il ministro della Salute Beatrice Lorenzin – sostengono l’importanza dell’adaptive licensing come strumento per promuovere l’accesso rapido al mercato rispettando l’attenzione alla sicurezza dei pazienti.

La grande maggioranza dei Paesi supporta un coordinamento più avanzato nell’Hta per lo sviluppo di rapporti comuni sui famaci e Joint Assestment, rispettando tuttavia le competenze nazionali. Si percepisce inoltre come sia necessario ottimizzare tutti gli strumenti della legislazione attuale per accelerare l’accesso ai pazienti ai farmaci innovativi”.

Lucia Scopelliti – 25 settembre 2014 – PharmaKronos

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