I limiti della Medicina basata sulle evidenze e gli studi clinici randomizzati

Dall’introduzione dell’EBM i costi per la salute sono aumentati, mentre le evidenze di alta qualità non sono state numerose. Forse perché i trial randomizzati sono stati spesso alterati dagli interessi dei soggetti coinvolti nella scelta delle ipotesi da testare nei trial, dalla conduzione degli studi e dalla comunicazione selettiva dei risultati

La “medicina basata sulle prove di efficacia” (Evidence-based Medicine, EBM) è stata definita come “l’uso coscienzioso e giudizioso delle migliori evidenze disponibili, integrato con l’esperienza clinica e con le preferenze del paziente, per guidare le decisioni di salute”. Ciò significa, per il medico, non basarsi solo sulla propria formazione e sull’esperienza acquisita in prima persona, ma anche su una forma di conoscenza più obiettiva suffragata da prove scientifiche. Un medico paziente ed esperto, dopo aver esaminato le evidenze, i valori della persona e il suo giudizio sulle opzioni di cura, dovrebbe essere infatti in grado di proporre il trattamento più appropriato per lo specifico caso clinico.

Ma a due decenni dall’affermazione di questo paradigma, divenuto prevalente a partire dai primi anni del nuovo secolo, una riflessione critica può aiutare a comprenderne punti di forza e di debolezza, o meglio a capire perché i risultati auspicati in termini di miglioramento complessivo delle cure siano stati solo parzialmente conseguiti ed individuare eventuali strategie e correttivi. È quanto hanno tentato di fare Susanna Every-Palmer, psichiatra consulente forense, e Jeremy Howick, ricercatore del Centre for Evidence-Based Medicine dell’Università di Oxford, in un articolo pubblicato sul Journal of Evaluation in Clinical Practice. I due autori evidenziano che “dall’introduzione dell’EBM, i costi per la salute sono aumentati, mentre le evidenze di alta qualità non sono state numerose. L’EBM ha avuto successo in settori specifici della pratica clinica – affermano – Ad esempio, l’assistenza post-operatoria per l’ictus e l’infarto del miocardio è migliorata alla luce delle nuove prove, e alcune pratiche dannose sono state ridotte quando le evidenze hanno mostrato che i rischi superavano i benefici (come nel caso della terapia ormonale sostitutiva post-menopausa). Si tratta di esempi promettenti, ma episodici – affermano gli Autori – Le prove di macro-livello sui principali risultati di salute conseguiti suggeriscono che il costo dell’assistenza sanitaria continua ad aumentare, i miglioramenti si sono stabilizzati e la fiducia nel personale medico è in calo.

Può darsi che ci stiamo avvicinando ai limiti della medicina, che i “frutti a portata di mano” siano già stati raccolti (ad esempio sulle malattie infettive), e che le patologie croniche siano semplicemente più complesse e difficili da affrontare (la malattia mentale, il diabete, le malattie cardiache, il cancro, il morbo di Alzheimer) – affermano Palmer e Howick – Un’altra possibilità è che il paradigma EBM sia intrinsecamente viziato e che la sua attuazione non si tradurrà in benefici per la salute”. Ma l’ipotesi, non esclusiva, che gli Autori analizzano in dettaglio è che l’EBM non sia stata attuata in modo efficace. In particolare, sostengono che una pietra miliare della metodologia EBM – il trial randomizzato – sia stata spesso alterata dagli interessi dei soggetti coinvolti nella scelta delle ipotesi da testare nei trial, dalla conduzione degli studi e dalla comunicazione selettiva dei risultati. Palmer e Howick supportano la loro convinzione con esempi tratti dalla ricerca in psichiatria.

Per anni – affermano – dopo l’introduzione degli antipsicotici atipici e degli antidepressivi della classe degli SSRI (gli inibitori della ricaptazione della serotonina), questi farmaci, molto costosi perché coperti da brevetto, sono stati preferiti ai rispettivi predecessori (gli antipsicotici tipici o di prima generazione da una parte, e gli antidepressivi triciclici e i trattamenti psicologici come la terapia cognitivo-comportamentale dall’altra) sulla scorta di una mole di trial e recensioni che ne attestavano la superiorità in termini di efficacia e di sicurezza, giustificando con tali vantaggi la differenza di costo. Tuttavia, dieci anni dopo che gli atipici avevano saturato il mercato, grandi trial indipendenti, noti con le sigle CATIE (Clinical Antipsychotic Trials of Intervention Effectiveness), CUtLASS (Cost Utility of the Latest Antipsychotic Drugs in Schizophrenia Study), ed EUFEST (European First Episode Study), hanno dimostrato che gli agenti atipici non sono né più efficaci né meglio tollerati e risultano meno convenienti rispetto ai loro predecessori. Riguardo alla depressione, alcune meta- analisi indipendenti rivelano che gli SSRI non sono più efficaci del placebo nel trattamento della depressione da lieve a moderata, la condizione per cui sono stati più comunemente prescritti.

“Com’è possibile quindi – si chiedono gli Autori – che per oltre un decennio siamo stati convinti dall’evidenza a pensare che tali trattamenti fossero superiori? Come abbiamo fatto a cascarci? Che cosa non ha funzionato negli studi randomizzati?”.

Palmer e Howick evidenziano quindi una serie di criticità. La prima riguarda la relazione tra committenti, finanziatori e risultati dei trial. Tra i due terzi ei tre quarti di tutti gli studi randomizzati pubblicati sulle maggiori riviste si sono rivelati finanziati dall’Industria – affermano – In secondo luogo, vi sono evidenze chiare che gli studi finanziati dall’Industria producano risultati diversi dagli studi indipendenti.

Heres et al. (1)  hanno condotto una revisione di trial finanziati dall’industria che confrontavano alcuni antipsicotici atipici per determinare se vi fosse una relazione tra lo sponsor e il risultato dello studio: il 90% dei trial dimostrava la superiorità del farmaco sponsorizzato. La conclusione, non plausibile, non era dovuta ai bias di pubblicazione. Gli studi erano stati semplicemente progettati in modo tale da garantire virtualmente che il farmaco favorito avesse la meglio: ad esempio, la dose del farmaco di confronto era troppo bassa per essere efficace, o così alta da produrre effetti collaterali intollerabili. L’esclusione o l’inclusione di target specifici di pazienti, i tempi di introduzione del placebo, il follow – up breve, la scelta delle tecniche di imputazione, l’uso (o meno) di aggiustamenti e le comunicazioni selettive dei risultati permettevano poi di amplificare la valutazione degli effetti del farmaco.

Sebbene il numero di studi randomizzati sia in esponenziale aumento – aggiungono gli Autori – la quantità di dati disponibili su un determinato trattamento tende a corrispondere alla sua importanza commerciale più che a quella clinica. Gli studi randomizzati sono costosi e quindi, naturalmente, i trial finanziati dalle Aziende si concentrano sui trattamenti potenzialmente redditizi come i nuovi farmaci, quelli coperti da brevetto o considerati di grande appeal commerciale. È significativo – scrivono – che, in confronto alla terapia farmacologica (brevettabile), siano stati pochissimi gli studi clinici sull’esercizio fisico nel trattamento della depressione: un intervento che, secondo una recente revisione Cochrane, si è rivelato ugualmente efficace rispetto al trattamento farmacologico convenzionale. Che l’esercizio sia utile per il trattamento della depressione è un dato estremamente rilevante dal punto di vista clinico, ma ha scarso valore commerciale perché l’esercizio non può essere brevettato. Molte domande insignificanti dal punto di vista medico (o già affrontate in modo adeguato) vengono ampiamente studiate, mentre altre più importanti sono tralasciate. Ad esempio – sottolineano Palmer e Howick – migliaia di studi randomizzati confrontano l’efficacia di antipsicotici simili e nessuno si occupa del trattamento efficace della costipazione indotta da antipsicotici, un effetto negativo angosciante che si verifica nel 60% dei pazienti trattati con questi farmaci e che può progredire fino al punto di una fatale occlusione intestinale.

Inoltre, le aziende farmaceutiche hanno un incentivo naturale a promuovere i risultati che sono favorevoli ai loro prodotti e minimizzare i risultati sfavorevoli – proseguono gli Autori  – La comunicazione selettiva dei risultati positivi e la non comunicazione dei risultati negativi è conosciuta come bias di pubblicazione. La migliore stima attuale è che la metà degli studi clinici completati non siano mai stati pubblicati su riviste accademiche e alcuni non siano stati neppure registrati.

Turner et al. (2) hanno esaminato tutti gli studi sugli antidepressivi completati e registrati con la Food Drug Administration (FDA), ricorrendo al Freedom of Information Act per ottenere i dati completi, in quanto un terzo degli studi era rimasto inedito. In 38 trial l’antidepressivo studiato era più efficace del comparatore (placebo o altro trattamento attivo). In altri 36 studi, invece, non lo era. I ricercatori hanno poi indagato il destino di pubblicazione di questi trial, riscontrando come fosse strettamente correlato ai risultati: erano stati pubblicati 37 dei 38 studi che avevano ottenuto un risultato positivo. Di quelli con esito sfavorevole, solo 3 erano stati pubblicati in modo esaustivo: 22 non erano mai comparsi su riviste accreditate, e 11 erano stati presentati in modo da comunicare un risultato positivo che non c’era. In sintesi, nella letteratura a disposizione del medico prescrittore, il 94% delle evidenze sugli antidepressivi risultavano positive. In realtà lo erano solo il 51% dei trial, e ciò generava una sovrastima del 32%.

In più, i trial condizionati dai bias non sono chiaramente qualificati come tali, quando vengono screditati. Finiscono nella letteratura elettronica e vi rimangono. Così, sostengono gli Autori – se un operatore sanitario esegue una ricerca rapida per parola chiave, uno studio randomizzato screditato può essere il primo a comparire, senza alcuna identificazione dei suoi difetti. Anche i più informati possono essere tratti in inganno. Ad esempio, Tatsioni et al. (3)  ritengono che il 50% delle revisioni accademiche abbia promosso un intervento screditato (vitamina E per la malattia cardiaca) cinque anni dopo la sua convincente dimostrazione di inefficacia.

Per le ragioni esposte, Palmer e Howick ritengono necessario che i trial vengano condotti da organismi indipendenti e propongono una serie di interventi: una campagna di sensibilizzazione perché vengano formalizzate e fatte rispettare misure che garantiscano la registrazione e la segnalazione di tutti gli studi clinici; maggiori investimenti nella ricerca indipendente (“finanziare indirettamente, attraverso gli alti costi dei farmaci brevettati, la ricerca dell’Industria, è un falso risparmio”); priorità di ricerca stabilite da organismi indipendenti.

Gli individui e le istituzioni che conducono studi indipendenti – aggiungono gli Autori – dovrebbero essere ricompensati in base alla qualità metodologica dei trial e non per l’eventuale risultato positivo (“uno studio ‘negativo’ è prezioso quanto uno ‘positivo’ da un punto di vista scientifico”). Gli strumenti di classificazione delle evidenze dovrebbero inoltre essere modificati per prendere in considerazione i bias relativi all’Industria. Esistono già dei meccanismi, come il Grading of Recommendation Assessment, Development and Evaluation (GRADE), che sovrastimano o sottostimano i trial in base al rischio di bias. Tuttavia, attualmente, tali sistemi non prendono in considerazione l’origine dei trial e non riconoscono espressamente l’elevato rischio di bias, quando chi produce evidenze ha interessi diretti nei risultati della ricerca. Introdurre un criterio di qualità che tenga conto del fatto che un trial sia stato svolto o finanziato da un soggetto con un conflitto di interessi – concludono gli Autori – sarebbe un passo semplice e di facile applicazione e consentirebbe di passare dall’astratta esaltazione del paradigma EBM al riconoscimento obiettivo che non tutte le evidenze si creano allo stesso modo e che i bias legati all’industria sono pervasivi e fuorvianti.

Luca Pani

Direttore generale Aifa

Saverio Vasta

Ufficio Comunicazione Aifa

Fonte: Editoriali Aifa, 26 maggio 2014

(1) Heres, S., Davis, J., Maino, K., Jetzinger, E., Kissling, W. & Leucht, S. (2006) Why olanzapine beats risperidone, risperidone beats quetiapine, and quetiapine beats olanzapine: an exploratory analysis of head-to-head comparison studies of second-generation antipsychotics. American Journal of Psychiatry, 163, 185–194.

(2) Turner, E. H., Matthews, A. M., Linardatos, E., Tell, R. A. & Rosenthal, R. (2008) Selective publication of antidepressant trials and its influence on apparent efficacy. New England Journal of Medicine, 358 (3), 252–260.

(3) Tatsioni, A., Bonitsis, N. G. & Ioannidis, J. P. (2007) Persistence of contradicted claims in the literature. Journal of the American Medical Association, 298 (21), 2517–2526

Attività

27 maggio 2014 – quotidianosanità.it

 

Exit mobile version