
AGGIORNAMENTO: In Scozia Donal Trump e Ursula Von Der Leyen hanno raggiunto un accordo fissando i dazi sulle esportazioni europee negli USA al 15%. Il dazio non supererà il 15% anche per i prodotti farmaceutici, ha assicurato von Der Leyen, ma
non è detto che non risalga.Von der Leyen ha riconosciuto che la questione farmaceutica è stata “messa su un foglio di carta separato”, indicando che sono previsti ulteriori negoziati
Ai giornalisti Trump aveva addirittura detto che i farmaci non sarebbero stati parte dell’accordo. Saranno esenti da dazi su entrambi i fronti alcuni prodotti chimici e farmaci generici. Ursula von der Leyen è rimasta impassibile anche quando Trump ha tracciato le sue linee rosse: non si scende sotto il 15% di dazi americani sui prodotti europei, il farmaceutico è escluso. Il presidente americano si è già detto intenzionato a introdurre dazi progressivi sul settore a partire da agosto e, per i pharma, non ha escluso l’ipotesi di arrivare a quota 200% entro 18 mesi. Il settore più colpito in assoluto quindi potrebbe essere proprio quello farmaceutico, che esporta oltre 10 miliardi di euro all’anno di beni negli Usa. Per questi prodotti infatti Trump ha annunciato un dazio specifico, più alto del 15%. Data la volubilità di Trump il settore farmaceutico rimane un’incognita.
Inoltre il presidente della Cna Dario Costantini sintetizza l’impatto dei dazi con un’espressione eloquente: “Si scrive 15 ma si legge 30%”, evocando il rischio di una doppia penalizzazione. Oltre al rincaro dei prezzi dovuto ai dazi, le imprese devono affrontare anche l’apprezzamento dell’euro sul dollaro (+15% negli ultimi mesi), che riduce ulteriormente la competitività.
La Farmaceutica, con una crescita tendenziale del +4,7% nei primi quattro mesi del 2025, è spinta da una domanda interna solida e da un robusto export, soprattutto verso gli Stati Uniti, dove l’anticipo degli ordini, in vista di nuovi dazi, ha dato un forte impulso.
La farmaceutica europea inoltre ha un fronte interno che la penalizza fortemente: riforma della legislazione farmaceutica (brevetti), la direttiva che introduce una tassa sulle acque reflue urbane, il recente Critical medicine act (rispetto al quale la nuova compagine di Efpia, la Farmindustria europea, è stata più tenera) e il recentissimo Life sciences strategy Ue. In Italia poi c’è anche il payback, un mostro economico finanziario.
L’esenzione dai dazi USA non è un vantaggio garantito per la farmaceutica svizzera
Il presidente statunitense Donald Trump sta facendo pressione sull’industria farmaceutica con dazi, da cui le case produttrici svizzere potrebbero essere esentate. Secondo gli esperti, tuttavia, le tariffe doganali avranno un impatto minore sul settore rispetto alla politica dei prezzi.
doganali reciproche di Washington, atteso entro il 1° agosto. Stando a fonti anonime citate da Bloomberg, gli USA si asterrebbero dall’imporre dazi su un settore di importanza vitale per la Svizzera.Il presidente Trump, tuttavia, non ha fatto alcuna menzione di un’esenzione per la Confederazione quando ha dichiarato che a partire dal 1° agosto le dogane statunitensi imporranno gradualmente dazi sulle importazioni farmaceutiche. Tali misure potrebbero raggiungere il 200% nell’arco del prossimo anno e mezzo.
A questa conclusione è giunta un’indagine avviata a metà aprile dall’amministrazione statunitense per stabilire se le importazioni farmaceutiche del Paese rappresentassero una minaccia per la sua sicurezza nazionale. Storicamente, i farmaci sono stati esenti da dazi, grazie a un accordo del 1995 dell’Organizzazione mondiale
I prodotti farmaceutici rappresentano, in valore, il 40% del totale delle esportazioni svizzere, il che ne fa il principale settore di esportazione. Oltre la metà (60%) di queste esportazioni è diretta verso gli Stati Uniti. In quelli che alcuni analisti hanno definito tentativi d’ingraziarsi l’amministrazione Trump, le case produttrici svizzere e internazionali si sono impegnate a investire miliardi di dollari negli USA dall’inizio dell’anno.
Tuttavia, al di là dei titoli, le persone esperte interpellate da Swissinfo affermano che il fatto che la farmaceutica svizzera sia inclusa o meno nell’accordo finale sui dazi farà poca differenza per il settore. Sostengono che le grandi aziende farmaceutiche, che hanno importanti margini di profitto sui farmaci, possono assorbire tariffe doganali più elevate. Aggiungono che i dazi sono un’opzione migliore rispetto all’abbassamento dei prezzi dei medicinali, che è un altro degli obiettivi di Trump e un argomento che sta usando nelle negoziazioni.
“Il potenziale trattamento preferenziale per la Svizzera naturalmente fa notizia, ma è meno rilevante di quanto si pensi, perché non è una garanzia di esenzione dai dazi, che verranno comunque applicati se le case produttrici non cederanno a concessioni sui prezzi”, spiega Fabian Wenner, analista del mercato azionario presso Julius Bär.
Il presidente Trump ha usato i dazi come leva per fare pressione sul settore affinché trasferisca gli impianti di produzione negli Stati Uniti. Il suo obiettivo è permettere agli USA di controllare la catena di approvvigionamento dei farmaci e di incentivare la produzione locale.
“I dazi sono il male minore”
Il presidente Trump si è anche concentrato sulla riduzione dei prezzi dei farmaci negli Stati Uniti, che sono i più
alti al mondo. Negli USA un trattamento contro il cancro con il farmaco Keytruda di Merck costa circa 191’000 dollari (152’476 franchi svizzeri) all’anno, più del doppio rispetto ai 91’000 dollari della Francia. Ciò è dovuto ad accordi negoziati segretamente tra i gruppi farmaceutici e i Governi, basati su un insieme di criteri economici, normativi e clinici, come il reddito di un Paese e il quantitativo di dosi ordinate.
Il motivo di prezzi così elevati è che le case produttrici spesso registrano i loro prodotti prima negli Stati Uniti (il più grande mercato farmaceutico del mondo) e garantiscono che la popolazione statunitense abbia sempre accesso ai medicamenti più recenti prima di altri Paesi. Le aziende farmaceutiche devono anche coprire gli alti costi derivanti da azioni legali collettive e accordi extragiudiziali, che sono più frequenti negli Stati Uniti che in altre nazioni, secondo Wenner.
Nel tentativo di abbassare i prezzi, il presidente Trump sta tentando dal 2020 di introdurre una politica interna basata sul principio della “Nazione più favorita” (Most Favoured Nation, MFN) per allineare i prezzi dei farmaci statunitensi a quelli dei Paesi che pagano di meno. Secondo gli esperti, abbassare i costi eroderebbe i profitti delle aziende farmaceutiche e le danneggerebbe a lungo termine.
“È molto probabile che questi dazi siano il male minore tra i due e che saranno accettati più facilmente dalle aziende farmaceutiche rispetto a una riduzione dei prezzi”, spiega Wenner. “Questo perché una volta che i prezzi vengono abbassati, è molto difficile alzarli di nuovo”. L’introduzione della politica MFN richiede l’approvazione del Congresso, che secondo l’analista sarà difficile da ottenere; la riduzione dei prezzi avrebbe conseguenze di vasta portata e potrebbe persino avere un impatto sull’occupazione negli Stati Uniti.
“L’industria non sembra essere eccessivamente preoccupata per i dazi, perché saranno introdotti gradualmente e la maggior parte dei gruppi farmaceutici dispone già di capacità produttiva negli Stati Uniti”, afferma Wenner. “Questo vale per Roche e Novartis, poiché un’ampia percentuale delle loro vendite era già destinata agli Stati Uniti, a differenza di Merck, Bayer o Sanofi”. Una settimana dopo l’annuncio , le azioni sono salite dell’1% secondo l’indice farmaceutico della Borsa di New York (NYSE Pharmaceutical Index), che monitora le grandi aziende del settore.
L’amministratore delegato di Roche, Thomas Schinecker, ha dichiarato ai media, durante la teleconferenza sui risultati del primo trimestre della società tenutasi in aprile, che quattro farmaci del suo portafoglio rappresentavano il 92% dell’esposizione dell’azienda ai dazi. La loro produzione sarà trasferita negli Stati Uniti, dove l’azienda ha finora operato al 50% della propria capacità.
All’inizio di aprile, Novartis ha annunciato l’intenzione di investire 23 miliardi di dollari negli Stati Uniti nei prossimi cinque anni. Ha aggiunto che creerà due poli di innovazione, quattro impianti di produzione e 1’000 posti di lavoro all’interno dell’azienda, in modo che “tutti i farmaci chiave di Novartis per i e le pazienti statunitensi saranno prodotti negli Stati Uniti”.
Materie prime estere nella farmaceutica
Nel medio termine, tuttavia, trasferire la produzione negli Stati Uniti non metterà al riparo le aziende farmaceutiche dal costo d’importazione dei principi attivi farmaceutici (API), i componenti essenziali che rendono efficaci i farmaci. Gli API sono spesso prodotti in Paesi diversi da quelli in cui hanno sede le aziende farmaceutiche, anche per le case produttrici statunitensi. Generalmente, la Dogana e protezione delle frontiere
degli Stati Uniti considera il luogo di produzione dell’API come il Paese d’origine di un farmaco.
“Finché le aziende farmaceutiche non saranno realmente in grado d’intensificare la produzione negli Stati Uniti, dipenderanno fortemente dalla produzione di materie prime estere”, afferma Jonathan Baumeler, direttore del settore Imposte indirette/Commercio globale presso la filiale svizzera della società di consulenza EY.
Oltre la metà del volume di produzione di API nel 2024 aveva sede in India (32%) e nell’UE (20%), secondo i dati della Farmacopea statunitense (USP). Escludendo i fluidi per via endovenosa, di cui gli Stati Uniti producono volumi significativi, solo il 12% del volume totale di API è prodotto internamente.
Secondo Baumeler, la scadenza di circa 18 mesi perché i dazi entrino in pieno vigore non è sufficiente per trasferire tutta la produzione negli Stati Uniti. Le aziende farmaceutiche interpellate da EY stanno invece considerando un orizzonte temporale di cinque-sei anni. Non solo la modifica delle catene di approvvigionamento è complessa, ma richiede anche una serie di approvazioni normative.
Per ora, sembra che le case produttrici continueranno a importare farmaci finiti negli Stati Uniti, un costo che gli operatori più grandi possono coprire senza incidere sul prezzo finale per la clientela. Per i produttori più piccoli, tuttavia, anche un aumento del 10% dei costi operativi può essere fatale, specialmente per chi produce farmaci generici e opera con margini molto più ridotti rispetto ai produttori di farmaci di marca. Se le aziende manifatturiere più piccole non saranno in grado di coprire i costi, gli esperti hanno avvertito che ciò potrebbe portare a una carenza di farmaci.
Sulla base delle importazioni del 2024, EY stima che dazi del 10% comporterebbero costi aggiuntivi per 14,39 miliardi di dollari per l’intero settore. Esistono diversi scenari per coprire i rincari: le case produttrici internazionali che importano prodotti negli Stati Uniti assorbono i costi, la clientela ne paga le conseguenze con prezzi più alti, oppure le aziende americane che acquistano beni importati coprono le spese perché non riescono a trovare altri partner di produzione.
Finché la situazione dei dazi non sarà più chiara e i prezzi non saranno negoziati con il Governo statunitense, saranno le case produttrici internazionali a dover coprire gli oneri se vorranno continuare ad accedere al mercato, secondo il consulente di EY. Per ora, in attesa di una decisione finale, le aziende stanno accumulando scorte negli USA. “Vogliono assicurarsi di avere prodotti in libera circolazione negli Stati Uniti”, afferma Baumeler. Ma gli esperti avvertono che, anche se i dazi probabilmente riporteranno la produzione e creeranno posti di lavoro negli Stati Uniti, il presidente Trump userà altri strumenti per spingerli ad abbassare i prezzi dei farmaci.
Articolo a cura di Virginie Mangin/ac
Tradotto con l’ausilio dell’IA/mrj
Johnson & Johnson, Merck e Bristol Myers Squibb spendono enormi quantità di denaro per acquistare influenza. Negli ultimi vent’anni, queste aziende hanno speso più di 351 milioni di dollari in attività di lobbying e 34 milioni di dollari in contributi alla campagna elettorale. L’anno scorso, queste tre aziende hanno inviato quasi 200 lobbisti al Congresso

L’industria farmaceutica è estremamente redditizia, con aziende come Johnson & Johnson, Merck e Bristol Myers Squibb che incassano ingenti somme di denaro.
- Nel 2022, Johnson & Johnson ha realizzato 17,9 miliardi di dollari di profitti e il suo CEO ha ricevuto 27,6 milioni di dollari di compensi. Nello stesso anno, l’azienda ha speso 17,8 miliardi di dollari in riacquisti di azioni proprie, dividendi e compensi ai dirigenti, rispetto a soli 14,6 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo (R&S). In altre parole, l’azienda ha speso 3,2 miliardi di dollari in più per arricchire dirigenti e azionisti che per trovare nuove cure.
- Nel 2022, Bristol Myers Squibb ha realizzato 6,3 miliardi di dollari di profitti e il suo ex CEO ha ricevuto 41,4 milioni di dollari di compensi. Nello stesso anno, l’azienda ha speso 12,7 miliardi di dollari in riacquisti di azioni proprie, dividendi e compensi ai dirigenti, rispetto a soli 9,5 miliardi di dollari in R&S. Proprio come Johnson & Johnson, Bristol Myers Squibb ha speso 3,2 miliardi di dollari in più per arricchire dirigenti e azionisti piuttosto che per trovare nuove cure.
- Nel 2022, Merck ha realizzato 14,5 miliardi di dollari di profitti e il suo CEO ha percepito 52,5 milioni di dollari di compensi. Nello stesso anno, l’azienda ha speso oltre 7 miliardi di dollari in dividendi e compensi ai dirigenti e 13,6 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo. Se il farmaco antitumorale Keytruda di Merck fosse un’azienda a sé stante, le sue vendite del 2022 rivaleggerebbero con il fatturato annuo di McDonald’s e supererebbero quello della catena alberghiera Marriott.
(Fonte: Commissione Salute del Senato degli Stati Uniti)
Nota: Trump ha rilanciato anche una politica che mira a ridurre i costi dei farmaci legando i prezzi di alcuni medicinali negli Stati Uniti a quelli significativamente più bassi praticati all’estero. “Pagheremo il prezzo più basso al mondo. Prenderemo chiunque paghi il prezzo più basso, quello è il prezzo che otterremo”. Aveva dichiarato a maggio. Problematico da attuare con dazi del 200%
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Ultim’ora: La trattativa USA UE è arrivata al 15% di dazi. Una stangata da quasi 23 miliardi di euro per l’export italiano negli Usa: sarebbe questo, secondo una simulazione del Centro Studi Confindustria, il conto da pagare nel caso di dazi al 15%. Sarebbero colpiti un po’ tutti i settori: dall’alimentare alle auto, ma soprattutto macchinari e farmaceutica.
Effetto dazi sulla farmaceutica: 316 miliardi investiti negli Usa
I principali gruppi farmaceutici europei hanno annunciato piani di investimento sempre più ambiziosi negli Stati Uniti: lo scorso aprile Novartis ha comunicato un piano da 23 miliardi di dollari destinato allo sviluppo di infrastrutture sul territorio statunitense, così come l’altro gruppo svizzero Roche, che ha dichiarato un investimento di 50 miliardi di dollari; a maggio anche il colosso francese Sanofi ha svelato l’intenzione di investire almeno 20 miliardi di dollari entro il 2030 nel Paese. La stessa strategia è stata messa in campo dai gruppi asiatici, come Takeda il cui ceo Christophe Weber ha annunciato 30 miliardi di investimenti in Usa.
I gruppi americani non sono da meno, dal momento che in molti casi devono riportare in patria produzioni che avevano dislocato altrove, per evitare eventuali dazi. Così Johnson & Johnson ha annunciato 55 miliardi di investimenti, Bristol Myers Squibb 40 miliardi, Eli Lilly 27 miliardi, Gilead Sciences 11 miliardi e Abb Vie 10 miliardi. A questi si aggiungono una serie di società che hanno annunciato impegni minori, ma sempre nell’ordine dei miliardi, come la biotech Ucb (5 miliardi per un nuovo impianto).
(Articolo integrale su: Il Sole 24ORE)




