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Covid-19 e idrossiclorochina: un altro problema nella gestione dell’emergenza. L’Italia non dispone di un’industria nazionale in grado di produrre un qualunque generico

L’andamento dell’infezione da coronavirus e le modeste possibilità terapeutiche ormai, a livello internazionale, seguono la linea del master plan qui di seguito riportato:

Il fatto quotidiano scienza – 9 aprile 2020 – di Antonio Marfella Presidente medici per l’ambiente, Napoli

In modo non omogeneo, le singole Regioni italiane si stanno muovendo secondo questo schema ognuna in rapporto alle proprie caratteristiche socio-geo-morfologiche e alle proprie disponibilità di risorse. Abbiamo ormai chiaro tutti che la guerra si vince sul fronte del combattimento sul territorio e si perde nell’affrontare l’epidemia solo sul piano delle cure ospedaliere. Due fenomeni stanno infatti emergendo in maniera significativa in Italia rispetto al resto del mondo:
l’eccesso di contagi tra il personale sanitario e l’eccesso di letalità tra i contagiati.

Secondo i dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità, in Italia dall’inizio dell’epidemia i professionisti sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus sono pari a circa il 9% del totale delle persone contagiate, una percentuale più che doppia rispetto a quella cinese del 3,8%. Tutte le analisi internazionali sugli errori commessi puntano il dito contro l’uso delle strutture ospedaliere e non territoriali nel tentativo di contenimento del contagio.

Secondo un grafico postato il 22 marzo da @theworldindex, l’Italia ha il maggior numero di morti per milioni di persone dovuti al coronavirus rispetto al resto del mondo (79.84).

Seguono a distanza Spagna, Iran e Francia. Il 48% dei deceduti italiani aveva 3 o più patologie in corso: sono le patologie a essere il reale fattore di rischio, più che l’età da sola, che già conta. L’Iss calcola che in oltre il 50% dei casi mortali registrati da infezione da Covid-19 si evidenzia la presenza di 2.7 comorbilità importanti.

L’idrossiclorochina, farmaco antimalarico oggi utilizzato in indicazione per combattere l’artrite reumatoide, nome commerciale Plaquenil, si è dimostrato efficace già nell’epidemia di Sars nel 2003 e oggi in questa epidemia da Covid-19 mostra attività terapeutica non per azione diretta antivirale o schizonticida, bensì perché in grado di modulare la risposta infiammatoria eccessiva e mortale a livello polmonare.

I dati scientifici lo hanno fatto inserire nelle linee guida Fimmg italiane per la cura domiciliare precoce di Covid-19 e la Regione Veneto ne sta proponendo con efficienza ed efficacia un utilizzo precoce domiciliare. Questi farmaci immunomodulatori, oltre ad avere un costo irrisorio, hanno un’attività terapeutica proporzionalmente maggiore quanto più precoce è stata la loro somministrazione in caso di accertata infezione virale.

Purtroppo il fatto allarmante è che tale farmaco, da assumere esclusivamente sotto prescrizione del medico curante, pare oggi introvabile nelle farmacie. Nonostante questo tipo di farmaci sia nel mondo tra i più utilizzati, specie per le cure domiciliari precoci, risultano ancora poche sperimentazioni cliniche controllate a supporto: come mai? Perché sono farmaci generici, fuori brevetto ormai da decenni e non esiste quindi nessun interesse da parte di nessuna ditta farmaceutica privata a fare sperimentazioni cliniche.

Ci stiamo rendendo conto tutti oggi di quanto siano strategiche anche in Italia industrie destinate alla Sanità pubblica. Stiamo pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane per la assenza di industrie italiane nella produzione di Dpi (dispositivi di protezione individuale a norma), come la mascherine, e per la mancanza di industrie italiane produttrici di ventilatori polmonari. Farmaci generici efficaci e a basso costo come la idrossiclorochina sono reperibili con estrema difficoltà anche in indicazione per i pazienti con artrite.

L’industria farmaceutica a partire dal 2008 è stata l’unica industria al mondo con una crescita costante anche oltre il 10% annuo. L’Italia è diventata in questi anni il primo produttore di farmaci in Europa, ma non dispone di un’industria nazionale o a partecipazione statale strategica per la produzione prioritaria e immediata di qualunque farmaco generico, come la industria ‘Teva’ israeliana, che in ebraico significa “Arca”. Gli israeliani negli ultimi venti anni hanno portato sulla propria “Arca” tutti i farmaci generici potenzialmente utili nel mondo per una immediata produzione di qualità a basso costo.

Accade così che la Teva (divenuta in soli 20 anni tra le prime al mondo) con ben cinque grandi fabbriche in Lombardia e Piemonte, oltre 1600 dipendenti diretti ed almeno altri 6000 nell’indotto, produca in Italia ma esporti circa il 93% della propria produzione rispetto ad una media nazionale (comunque elevatissima) del 73%. E così, mentre da noi si cerca di sminuire l’importanza di terapie domiciliari precoci con farmaci come la idrossiclorochina, forse perché manca, forse perché costa troppo poco e nessuno ha interesse a produrla, la Teva internazionale ne dona circa sedici milioni di pezzi al governo Usa di Trump per poterne fare uso precoce in terapie non solo ospedaliere.

E’ l’ora di migliorare il rapporto dello Stato italiano con le industrie farmaceutiche private in Italia a vantaggio degli italiani. Siamo i primi produttori di farmaci in Europa, ma come cittadini siamo i minori destinatari d’uso dei farmaci prodotti sul nostro territorio nazionale! E’ giunta l’ora che “prima gli italiani” lo si dica ben chiaro alle industrie farmaceutiche che producono in Italia nel rispetto dell’art 32 della nostra Costituzione. L’industria farmaceutica è una industria strategica anche e soprattutto per l’Italia, oggi più che mai.

di Antonio Marfella Presidente medici per l’ambiente, Napoli

Redazione Fedaisf

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