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L’epidemia d’Ebola e il business farmaceutico

La minaccia di Ebola è stata “gonfiata” in modo tale da “obbligare le persone a vaccinarsi”. Negli Stati Uniti una prova clinica su un paziente costa una media di 10.000 dollari. In Africa è gratis. “il valore vero della sperimentazione non è nel conseguire la sua migliore efficacia ma è l’arrivare primi per brevettare prima”. L’epidemia d’Ebola rischia di diventare un nuovo business farmaceutico.

di: Roberta Mura – 26 Agosto 2014 – Rinascita

L’emergenza d’Ebola rimane alta in Africa Occidentale. I mass media, ogni giorno, parlano di casi di contagio in Europa, in Canada e negli Stati Uniti, scatenando una psicosi generale. Casi ancora tutti da accertare. Basta una piccola febbre o un mal di pancia per lanciare l’allarme.
L’Ebola, i cui sintomi ricordano i film dell’orrore, fa paura. In Africa e fuori dai suoi confini. Il virus uccide in maniera rapida, molto di più rispetto all’HIV. Oltre 1427 persone sono morte. Il totale dei casi è di 2615.
Dati che hanno indotto l’Organizzazione della sanità mondiale (OMS) a concedere l’autorizzazione per gli esperimenti in Africa in quanto l’epidemia in corso è “un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale”. Pertanto, tutto è lecito, nonostante i tempi siano prematuri.
In un’intervista ripresa dal sito di informazione Cameroonvoice.com, il dottor Garth Nicolson, uno dei maggiori esperti in malattie emergenti, sostiene che la minaccia di Ebola è stata “gonfiata” a causa della “natura spettacolare” dei sintomi. Secondo Nicolson questi sintomi drammatici, che appaiono molto rapidamente, rende l’Ebola relativamente facile da contenere: “Se hai una malattia feroce e altamente fatale, come l’Ebola, si attira un sacco di attenzione. È dunque possibile isolare immediatamente i pazienti, e quindi contenere l’intero processo”. Un po’ come è successo in Guinea, dove la situazione è sotto controllo.
Secondo la ricercatrice Anne Sullivan, l’epidemia potrebbe essere usata per “creare un livello di allerta molto alto, in modo tale da obbligare le persone a vaccinarsi”.
Lo abbiamo visto più volte negli ultimi anni, come per l’influenza suina. Dopo un allarme generale, si è scoperto che il vaccino era più nocivo che altro.
Ora, per l’Ebola c’è il siero sperimentale “ZMapp”. Lo chiamano il “siero magico”, in seguito ai “miglioramenti” del medico missionario statunitense, Kent Brantly, contagiato dal virus in Liberia.
Nulla si sa di questo siero. Non si conoscono i possibili effetti negativi. E finora è stato sperimentato solo sulle scimmie. Tuttavia tutti lo vogliono. I Paesi africani per primi. Soprattutto, Liberia e Sierra Leone, dove la situazione rimane grave a causa dell’inadeguatezza dei governi che non si sono mossi per tempo, nonostante il virus avesse già fatto stragi in Guinea. La carenza di medici, attrezzature e medicine ha fatto tutto il resto.
Dopo il “successo” dello Zmapp , realizzato dalla Mapp Biopharmaceutical Inc. di San Diego, in collaborazione con l’azienda canadese Defyrus, anche le altre grandi multinazionali del settore si sono messe all’opera. Il colosso britannico Gsk e quello statunitense National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid) hanno annunciato di aver sviluppato un vaccino contro l’Ebola che verrà sperimentato sull’uomo entro l’anno. Al momento, secondo l’Ansa, ci sarebbero almeno tre farmaci e un vaccino contro il bacillo, sviluppati con contributi del dipartimento della difesa Usa, che hanno dato buoni risultati sugli animali e potrebbero entrare velocemente nella fase clinica dei test.
Nella prassi comune, ogni farmaco dovrebbe infatti superare varie fasi di studio e di sperimentazione per poter poi entrare nel mercato ed essere venduto e somministrato ai malati. A volte ci vogliono addirittura 15 anni.
Come denuncia Leleva.org, negli ultimi anni, però, le multinazionali del farmaco riescono ad eludere il problema di fasi controllo troppo rigide ricorrendo al reclutamento di cavie umane volontarie in Africa e nei Paesi in via di sviluppo, al fine di sperimentare farmaci i cui test non sono ancora stati approvati negli Usa o in Gran Bretagna, ovvero i Paesi in cui si concentrano i due terzi dei profitti farmaceutici mondiali.
Negli Stati Uniti una prova clinica su un paziente costa una media di 10.000 dollari. In Africa è gratis. Oltre ad un risparmio economico, i test di sperimentazione su cavie umane africane permette di risparmiare anche sui tempi, perché le case farmaceutiche sottostanno in questo caso alle legislazioni locali solitamente meno restrittive. Questo permette di arrivare prima sui mercati e di brevettare prima. Per un giorno di ritardo nel lancio di un farmaco, un’azienda farmaceutica perde oltre un miliardo e mezzo di euro.
Come afferma Leleva.org, “il valore vero della sperimentazione quindi non è nel conseguire il miglior prezzo a cui poi vendere un prodotto o la sua migliore efficacia (come poteva essere decenni fa, in cui forse il business aveva ancora un’anima umanistica), ma è l’arrivare primi per brevettare prima”.
Pertanto, alla Mapp Biopharmaceutical Inc, che ha realizzato per primo il virus, entreranno nelle tasche parecchi soldi.
Il clima di allarmismo, suscitato dai media internazionali, ha inoltre creato la condizione ideale in cui i governi africani si sentano in dovere di fare di tutto per arrestare l’epidemia, mancando di lucidità.
Il rischio è che gli africani vengano usati come cavie umane. Non sarebbe la prima volta. Circa il 35 % delle donne africane sono sterili in seguito alla somministrazione di vaccini. Il lancio di medicinali in via di sperimentazione possono avere conseguenze drammatiche. Per fare un esempio: tra il 1967 e il 1978, nello Stato della Georgia, negli Stati Uniti, Washington autorizzò la sperimentazione del Depo-Provera, che ha diverse controindicazioni, tra cui l’osteoporosi e a lungo andare la sterilità, su più di 13mila donne povere, la metà delle quali erano nere. La maggior parte di loro, che non erano a conoscenza della sperimentazione, si sono ammalate. Molte altre sono morte. Medicinali contraccettivi come il Depo-Provera sono stati utilizzati spesso da Washington per ridurre il tasso di natalità dei poveri. Nel 1960, gli Usa erano preoccupati per l’aumento della popolazione del Puerto Rico. Nel 1965 si è riscontrato che il 34% delle donne portoricane tra i 20 e il 49 anni erano state sterilizzate.
Oggi, in Africa, “le case farmaceutiche hanno l’opportunità di sperimentare sull’uomo con l’approvazione dell’opinione pubblica” fa notare un giovane sierraleonese che ha chiesto l’anonimato: “I medici che hanno lanciato l’allarme e che operano nei confini in Guinea o Sierra Leone sono nordamericani. C’è chi pensa che l’epidemia potrebbe essere stata diffusa. Guarda caso gli Stati Uniti o meglio una casa farmaceutica americana ha trovato il vaccino nel momento propizio. Strana coincidenza. Questo è un affare d’oro”.
L’epidemia d’Ebola rischia di diventare un nuovo business farmaceutico. Un déjà vu con l’emergenza dell’HIV, in cui si è speculato facendo soldi facili.
Erano gli anni Ottanta e l’Aids si diffuse in tutto il mondo. Una malattia terribile, incurabile e mortale. Le case farmaceutiche si misero subito a lavoro e poco dopo, nel 1987, uscirono alcuni farmaci “magici”, tra questi: AZT, DDI, 3TC, inibitori della proteasi. Tutti nati negli Stati Uniti.
Alcuni anni dopo la loro uscita nel mercato, un gruppo di autorevoli ricercatori denunciò che l’approvazione di questi farmaci era passato attraverso test incompleti e pressioni di ogni tipo. Il tutto per nascondere al pubblico che gli effetti a lungo termine degli inibitori della proteasi erano sconosciuti e che l’AZT era inefficace e, addirittura, che accelerava la morte di migliaia di ammalati.
La multinazionale Wellcome, divenuta poi Glaxo Wellcome, era a conoscenza degli effetti dannosi, ma se ne infischiò.
Oggi, si rischia di commettere lo stesso errore.
Ancora adesso dell’Ebola si sa ben poco. La prima scoperta del virus risale al 1976, in Congo. L’Ebola è infatti un fiume congolese. Secondo gli studiosi, il virus “abiterebbe” da moltissimo tempo all’interno delle volpi volanti, grossi chirotteri che mangiano frutta e abitano le foreste tropicali. Per trasmetterlo all’uomo il virus potrebbe essere passato dalle volpi volanti alle scimmie o altri animali della foresta, che vengono regolarmente mangiati dalle etnie locali.
Come spiega al telefono Saverio Bellizzi, l’epidemiologo di Msf, tornato da un mese in Italia dopo due missioni in Guinea, “si trasmette tramite il contatto con i fluidi delle persone infette. Il contatto non è via aerea ma via contatto diretto tramite sangue o fluidi idrologici. Il virus è estremamente nocivo all’interno dell’organismo ma è anche molto labile nel senso che basta semplicemente lavarsi le mani con il sapone e si inattiva il virus immediatamente. Per essere veramente contagiati bisogna avere il contatto diretto: toccare una persona che abbia un’alta carica di virus e avere dei sintomi evidenti. Una persona che non ha sintomi non è contagiosa anche se il virus è al suo interno”.
In Guinea, spiega, Bellizzi, in mancanza di vaccini e terapie specifiche, sono state usate “terapie di supporto, quindi idratazione, nutrizione e terapie antibiotiche o antimalariche nel momento in cui il paziente sia affetto da patologie associate. Il tutto perché mira a rinforzare il corpo per combattere meglio il virus”, il cui tasso di mortalità varia dal 25% al 90%. Misure che hanno portato a buoni risultati.
La situazione non è facile. Non solo per la carenza di medici o di attrezzature. “C’è difficoltà principalmente per due motivi: una è l’estrema mobilità delle persone che si muovono da villaggio a villaggio in maniera continua e veloce, quindi una volta contagiati si muovono e possono sviluppare nuovi focolai in nuove zone; e poi le resistenze culturali. Ci sono difficoltà a sensibilizzare e rendere consapevoli le persone del luogo dell’esistenza della malattia”, spiega l’epidemiologo. Quello che si può fare è “sconfiggere l’Ebola solo con una grande campagna di sensibilizzazione, villaggio per villaggio”.
In Africa, la scaramanzia è forte. Ci sono tanti piccoli villaggi, popolati da etnie diverse che nutrono una profonda sfiducia nei confronti della medicina occidentale. Nascondono i malati per evitare che vengano portati nei centri di assistenza. Sono spaventate dalla morte dei loro cari, consumati da violenti dolori muscolari, mal di testa, vomito, diarrea ed emorragie.
La chiamano la malattia del “diavolo”. Tradotto: la malattia dei bianchi. Si pensa che la febbre sia un complotto o un’invenzione degli occidentali, che tanto male hanno fatto all’Africa, prima con la tratta degli schiavi, poi con la colonizzazione e ora con il saccheggio del sottosuolo.

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Redazione Fedaisf

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