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Cassazione. I lavoratori licenziati potranno rivendicare i crediti retributivi risalenti fino a cinque anni prima dell’entrata in vigore della legge Fornero

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, ha accolto il ricorso promosso da un gruppo di lavoratrici dell’Avicola Alimentare Monteverde di Brescia contro la sentenza della Corte d’Appello di quella città che aveva sostenuto la decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro in costanza di rapporto.

Le importanti conseguenze pratiche di questa decisione sono che i lavoratori dipendenti da aziende private che occupano più di 15 dipendenti potranno oggi rivendicare, entro cinque anni dalla cessazione del rapporto, i crediti retributivi risalenti fino a cinque anni prima dell’entrata in vigore della legge Fornero (ossia i crediti risalenti al luglio 2007).

La Cassazione, dopo un’ampia valutazione delle riforme introdotte in materia di licenziamento dalla legge Fornero e dal Jobs Act (e anche delle sentenze della Corte Costituzionale che le hanno in parte smantellate), giunge alla conclusione che la reintegrazione non costituisca “la forma ordinaria di tutela contro ogni forma illegittima di risoluzione” (la Corte prende addirittura a prestito dalla genetica l’espressione “carattere recessivo” per parlare della tutela reintegratoria).

Il tema è noto: dopo che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 63 del 1966, aveva accertato l’incostituzionalità di alcune norme del Codice civile introducendo il principio della non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro in costanza di rapporto, con successiva decisione aveva precisato che tale principio non dovesse valere in tutti i casi in cui il rapporto di lavoro avesse caratteristiche di stabilità, puntualizzando che “una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica pre-esistente fatta illegittimamente cessare” (Corte Costituzionale, n. 174 del 1972).

Sono sicuramente da considerare stabili i rapporti di pubblico impiego (vedi Corte Costituzionale, n. 143 del 1969) e, dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, i rapporti di lavoro privato con datori che occupano più di 15 dipendenti (vedi Cassazione Sezioni Unite, n. 1268 del 1976): per essi, infatti, fino al 2012 era previsto che, a fronte di una dichiarazione d’illegittimità del licenziamento, le conseguenze erano sempre la reintegrazione nel posto di lavoro. Questa regola non poteva evidentemente valere per i rapporti la cui natura subordinata veniva stabilita dal giudice all’esito del processo.

In buona sostanza, per la Corte Costituzionale la non decorrenza della prescrizione doveva essere strettamente collegata alla previsione di una “sanzione giudiziaria” che portasse alla ricostituzione del rapporto.

Anche a seguito dell’entrata in vigore della Fornero e del Job Act alcuni giudici e molti autori hanno sostenuto che le modifiche legislative non avessero intaccato significativamente le garanzie per il lavoratore, evidenziando, in particolare, che le ragioni che giustificavano la decisione della Corte Costituzionale del 1966 facevano leva sul metus (stato di soggezione psicologica) del dipendente nei confronti del datore di lavoro e dal timore di essere licenziato nell’eventualità di una qualche rivendicazione.

Ebbene, secondo questa tesi, sia la Fornero sia il Job Act tutelano il cosiddetto licenziamento ritorsivo prevedendo espressamente la reintegrazione per quest’ipotesi (come per il licenziamento discriminatorio e per altre violazioni di legge).

Questo argomento – molto suggestivo – non regge però di fronte alla considerazione che nessuno ha mai messo in discussione la mancata decorrenza della prescrizione per quei datori di lavoro che impieghino meno di 16 dipendenti, nonostante che anche in quelle realtà – da sempre – un licenziamento, dove venga dimostrata la motivazione ritorsiva, comporta la reintegrazione.

Va poi considerato che la tutela che l’ordinamento offre nei casi di licenziamento ritorsivo incontra il limite di un onere della prova significativamente arduo per il lavoratore. Quest’ultimo si troverà nella situazione di dover dimostrare non solo il motivo ritorsivo (che difficilmente viene ammesso esplicitamente) ma anche che questo sia l’unico e determinante del recesso.

Il tema della decorrenza della prescrizione era così importante e controverso che la Corte di Cassazione nel gennaio 2022 aveva organizzato una giornata di studi, invitando, oltre ai magistrati, autorevoli docenti universitari affinché si confrontassero le diverse posizioni in un franco dibattito.

La sentenza, accogliendo le tesi più favorevoli ai lavoratori, stabilisce il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

Fonte Collettiva – 7 settembre 2022

Redazione Fedaisf

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