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Come riconoscere un ambiente di lavoro tossico: 5 segnali da non sottovalutare

Come si riconosce un ambiente di lavoro tossico: 5 segnali da non sottovalutare

Lavorare in condizioni di stress può essere molto usurante. Ecco 5 importanti segnali che ti dicono che il tuo ambiente di lavoro è tossico.

Roba da donne – 1 marzo 2022

Lavorare in un ambiente poco piacevole e in cui non ci trova a proprio agio può compromettere in modo significativo la nostra produttività. Ecco 5 segnali da non sottovalutare che ci rivelano se ci troviamo in un ambiente di lavoro tossico.

1 – Tensione continua

Sentirsi continuamente addosso ansia e inquietudine dovute al lavoro è di sicuro il primo segnale che dovrebbe farci capire che abbiamo bisogno di un cambiamento, a volte anche drastico. È importante, però, non sottovalutare la situazione. Quando i sintomi vengono a lungo ignorati e non ci si attiva quanto prima con specifici trattamenti o rimedi naturali, lo stato di nervosismo può diventare cronico e sfociare in esaurimento nervoso, compromettendo anche la produttività e portando alle dimissioni.

2 – Si è sempre sulla difensiva

Quando ci si sente sempre sotto attacco e continuamente criticati non si riesce a pensare con la dovuta lucidità. Se vi sembra sempre che tutti se la prendano con voi (anche quando non è così) state vivendo una situazione di forte stress emotivo. In questi casi occorre fare un passo indietro e magari prendersi un periodo di pausa per ritrovare l’equilibrio perso.

3 – Mobbing

Il mobbing è uno dei problemi più difficili da affrontare in campo lavorativo. Spesso a soffrire per questa forma di bullismo sono i lavoratori più instancabili e sempre disponibili a caricarsi dei problemi di tutti. A loro vengono solitamente affidati i compiti meno piacevoli e non all’altezza della loro qualifica.

A volte sono anche costretti a prolungare il loro orario lavorativo senza ricevere una paga adeguata. Se vi ritrovate in questa categoria di lavoratori dovete sapere che questo trattamento è molto pericoloso per la salute psicofisica della persona e, se non si interviene in tempo, può portare alla depressione.

4 – Mancanza di autonomia

Non poter godere di sufficiente autonomia lavorativa può compromettere in modo massiccio la nostra soddisfazione sul lavoro. Essere controllati continuamente può diventare asfissiante ed enormemente stressante per il lavoratore. Questo stress può portare a un crescente assenteismo e a uno scarso coinvolgimento sul lavoro.

5 – Confusione di ruoli e mansioni e scarso ascolto

L’assenza di una chiara divisione dei ruoli da svolgere all’interno dell’azienda può far crescere l’insoddisfazione del lavoratore nonché frenarne la produttività. Per dare il massimo sul lavoro è infatti necessario avere chiaro in mente ciò che si deve fare e dedicare la totale attenzione alle mansioni richieste, comunicando in modo positivo con gli altri membri dello staff. Se vi siete ritrovati a svolgere più compiti contemporaneamente saprete che a risentirne è la qualità del lavoro svolto, che è sempre commisurata al benessere del lavoratore.

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Per approfondire

REAGIRE ALLE CRITICHE SUL LAVORO

NEI LUOGHI DI LAVORO QUAL È LA DINAMICA CHE INNESCA LA FORMULAZIONE DI CRITICHE, OBIEZIONI, DISAPPROVAZIONE DA PARTE DEL SUPERIORE, E COME VI SI PUÒ REAGIRE PERCHÉ L’OPPOSTO DEL COMPLIMENTO SVOLGA UNA FUNZIONE POSITIVA E NON MORTIFICANTE?

Psicologia contemporanea – giugno 2021

Il mondo del lavoro è un ambiente complesso e altamente diversificato: di fatto, non esiste “una” realtà organizzativa, ma numerose tipologie differenti all’interno delle quali trovano posto le specificità di ogni singolo ambiente socio-professionale. Alla varietà di realtà organizzative fa riscontro la molteplicità di tipologie umane e una grande differenziazione relativa ad altri parametri rilevanti, come – solo per citarne alcuni – il clima e la cultura dei gruppi, la loro socio-dinamica, gli stili di leadership.

Un aspetto che ciascuna persona mette in gioco nel momento in cui vive nelle realtà di lavoro è la propria identità personal-professionale, la dimensione dell’autostima e l’immagine sociale. Questi aspetti ci conducono subito molto vicino al tema del presente scritto perché la capacità dell’individuo di gestire le critiche che riceve sul lavoro si colloca all’interno di delicate dimensioni psicologiche individuali, sociali e organizzative.

CRITICHE COSTRUTTIVE E DISTRUTTIVE

Ci si può domandare cosa significa esprimere una critica all’interno delle relazioni socio-professionali, del gioco dei ruoli organizzativi, ma anche nel contesto delle qualità soggettive di ciascuna persona. Sappiamo che in un processo di comunicazione l’importante non è ciò che è detto, ma ciò che è recepito: si potrebbe affermare, con una battuta, Se vuoi sapere cosa hai detto, chiedi cosa hanno capito! In effetti, nella comunicazione interpersonale ogni persona (il cosiddetto “ricevente”) percepisce, ascolta, capisce, interpreta e ricorda sulla base di numerosi fattori personali e situazionali. Entro il mondo organizzativo è sempre più spesso data rilevanza ai circuiti di feedback. Il “feedback” – cioè «il ritorno dell’esperienza fatta dall’individuo stesso… [che] è una condizione essenziale, all’interno del processo sociale per lo sviluppo della mente!» (Buckley, 1967) – è una parola ormai entrata nel vocabolario quotidiano (talvolta anche a sproposito), ma rimane una tra le più potenti risposte umane. Nel contesto delle reazioni alle critiche sul lavoro, uno dei problemi è il carattere giudicante che il feedback può contenere, suscitando una reazione di limitata partecipazione nel ricevente, che può essere indotto al rifiuto, a irrigidirsi e a difendersi in modo aprioristico. Ciò è molto evidente in determinati setting di colloquio individuale che si svolgono nelle organizzazioni (Castiello d’Antonio, 2015), primo fra tutti il colloquio di valutazione delle prestazioni. Un contesto in cui gioca naturalmente un ruolo rilevante il clima di fiducia, o sfiducia, tra manager e collaboratore; un clima che è a sua volta determinato dalle forme di comunicazione e di gestione della relazione che si attuano tra i due attori organizzativi.

Probabilmente, a fronte di una critica, pur se ben espressa, un iniziale atteggiamento naturale di autoprotezione conduce la maggior parte delle persone a non condividere il messaggio ricevuto. Ma è evidente che climi di oppressivo controllo, arrogante superiorità, giudizio assolutistico peggiorano tale situazione-percezione, mentre le forme di colloquio in cui si punta a descrivere e ragionare, invece che andare contro l’interlocutore, favoriscono la comprensione reale dell’oggetto del discorso.

Del resto, è una vecchia regola di base quella che mette in guardia dal criticare la persona, suggerendo piuttosto di indirizzarsi verso l’esame del problema, contestualizzando e lasciando spazio alla riflessione condivisa. In tale atmosfera, infatti, la critica sarà inscritta in una cornice emotiva flessibile che renderà l’oggetto del discorso occasione di apprendimento e autoverifica.

PERSONE E RUOLI

D’altronde, nella persona possono albergare emozioni inconsapevoli che producono reazioni oppositive, dure, polemiche o sfuggenti alle critiche, per quanto poste in modo ragionevolmente positivo. Questo meandro inconscio può essere composto da sentimenti di inadeguatezza, di impotenza, inerenti al bisogno di punire e/o essere punito, da sensi di colpa, da ostilità, dalla necessità di manipolare o di mostrare disprezzo e superiorità: è spesso sufficiente una moderata miscela di tali sentimenti a rendere la persona che riceve una normale osservazione critica impulsivamente esplosiva o, all’opposto, del tutto assente, gelida e razionalizzante in senso autoassolutorio. Ancor peggio quando una giusta osservazione critica rimarca una sconfitta, dato che la sensazione di sentir mettere un “dito nella piaga” è difficile da sostenere e da gestire. In frangenti così emerge il rapporto che ciascuno ha sia con la sconfitta che con la vergogna sociale nel momento in cui la sconfitta è visibile agli altri: la frustrazione può suscitare rabbia, sconforto, senso di solitudine, ma può anche trasformarsi in sfida, in energia produttiva, generatrice di positività e di talento. Non a caso, alcuni ritengono che si apprenda di più perdendo! Perché ci si può concentrare, ri-osservare e maturare.

Se il ruolo di chi riceve la critica non è semplice, anche la funzione di chi la deve trasmettere implica una notevole complessità. Non per nulla, spesso i superiori sono ben lieti di comunicare esiti positivi ai loro collaboratori, ma rifuggono dal comunicare un feedback critico temendo di suscitare reazioni o, semplicemente, non sapendo come gestirlo. Nelle situazioni peggiori, a soggetti aggressivi, violenti, arroganti fanno riscontro quelle che sono state definite da Leanne Faraday-Brash (2012) culture avvoltoio, un insieme di manifestazioni distruttive personificate da comportamenti devianti nel mondo del lavoro (Castiello d’Antonio e d’Ambrosio Marri, 2017).

Insulti, offese, oltraggi o ingiurie non sono “solo” mancanza di rispetto, intrise di aggressività, e come tali non vanno accettate da chiunque provengano: costituiscono anche dei veri e propri attacchi all’identità personale, anche quando sono lanciate con quel tipico modo di fare, apparentemente cortese e formalmente ineccepibile, che copre così bene la volontà distruttiva (Castiello d’Antonio, 2012). Così come alle prime avvisaglie dei fenomeni di mobbing e di bullying organizzativo, rispetto a critiche infondate e offensive per la dignità della persona, è sempre bene reagire tempestivamente, anche quando il contenuto del messaggio della critica è semplice e senza grandi complessità: ciò per evitare il propagarsi dell’effetto della verità illusoria, cioè quel fenomeno insidioso per cui se si ripete una bugia abbastanza spesso, le persone finiscono per crederci.

COOPERAZIONE, COMPETIZIONE E SALVAGUARDIA DI SÉ STESSI

Tutta la vita di lavoro può essere vista (anche) sotto la luce della danza, si spera armonica, tra comportamenti cooperativi e competitivi. Ma la cooperazione ha mille volti – per esempio, può essere una cooperazione attiva e contributiva, oppure laterale e passiva – e così, naturalmente, la competizione, che da costruttiva può facilmente scivolare negli atteggiamenti distruttivi. Assumendo il punto di vista di colui che intende mantenere una relazione positiva con le persone e con l’ambiente di lavoro – ma, direi, anche con sé stesso, evitando di farsi del male nutrendo sentimenti di odio, rivalsa e simili –, si tratta allora di riuscire a reagire in modo funzionale anche alle critiche distruttive. Salvaguardando, quindi, le relazioni, sé stessi e il proprio ruolo professionale.

Sia nell’ambito delle attività di education sia nei percorsi di formazione individuali, il tema si pone nell’ottica dello sviluppo di qualità personali atte a far fronte a situazioni insidiose come quelle delle quali stiamo parlando. Considerando che le persone che nutrono un sentimento di autostima e di fiducia in loro stesse sufficientemente adeguato sono per natura avvantaggiate nel reagire alle critiche non costruttive nel mondo del lavoro, uno dei punti delicati che affiorano è costituito dal sentimento di essere/sentirsi offesi. L’attacco può infatti provocare la reazione non controllata e poco equilibrata di colui che avverte acutamente la ferita, la frustrazione e sente di essere stato oltraggiato, ma in questi casi può anche accadere di far finta di nulla, cioè di negarsi il diritto di sentirsi infastiditi, vilipesi, fino al senso di umiliazione.

Esprimere come ci si sente a fronte di situazioni di tal genere consente alla persona di non falsificare sé stessa e di comunicare
– senza vittimismi e senza giocare a ping pong con colui che offende, per evitare di cadere nel suo gioco – il proprio risentimento e anche le proprie ragioni. Evitare di personalizzare la critica, e con essa l’aggressione percepita attraverso la critica, aiuta a mitigare l’inclinazione a entrare in una fase di combattimento e di contrasto (diretto o indiretto) con l’interlocutore. Anche quando si è provocatoriamente trascinati in un confronto sul piano personale conviene provare a cambiare schema: contestualizzare, parlare del problema e non di sé e/o dell’interlocutore, ignorare l’attacco personale e spostare l’attenzione sul contenuto del problema e sul processo, sulla dinamica che l’ha generato.

Diviene quindi importante non rassegnarsi agli attacchi e al gioco al massacro che in tali casi può svilupparsi, reagendo con fermezza e razionalità, anche perché restare autorevoli tende a spiazzare l’interlocutore nel caso in cui quest’ultimo stesse giocando in malafede o con l’intento apposito di mettere in difficoltà. Sdrammatizzare, insieme al ricorso all’autoironia, rappresenta un supporto per sentire il meno possibile il peso delle critiche distruttive.

Rimane comunque un fattore chiave la capacità di spostare o riportare costantemente l’attenzione sul contenuto dell’attacco, avvalendosi di domande che aiutino a chiarire qual è realmente il problema che si vuole affrontare e fino a che punto l’interlocutore ha realmente interesse a risolverlo (e non soltanto a denigrare il soggetto presunto colpevole). Chiedersi e chiedere esplicitamente cosa e come si potrebbe fare per evitare il ripetersi dell’eventuale errore o situazione, e per affrontarne al momento le conseguenze, significa coinvolgere l’interlocutore nella ricerca della soluzione, senza dare per scontato che l’onere del risanamento debba cadere sulle spalle di uno solo dei soggetti.

Utilizzando modalità di tal genere si tende a evitare di entrare nella visione “tunnel” che restringe il campo visuale e impedisce di individuare soluzioni innovative, spesso giungendo ad arricchire il campo conoscitivo: partendo, quindi, da una situazione problematica, vi è la possibilità di apprendere nuove capacità e di individuare strade e approcci diversi per risolvere problemi vecchi e nuovi.

UN LEADER DEV’ESSERE GENTILE

George Saunders, scrittore e saggista americano, collaboratore di «American psyche», la rubrica settimanale del quotidiano The Guardian, nel 2013 ha tenuto ai laureandi della Syracuse University un discorso in cui ha affermato: «Essere gentili è difficile… Se dobbiamo diventare più gentili, questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano… Sì, dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo essere. Siate quindi gentili e proattivi, e addirittura, in un certo senso, i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita».

Dietro lo slancio e la visione che echeggiano in queste parole possiamo vedere esempi concreti, per certi versi apparentemente più semplici o meno suggestivi, come quello del Comune di Omegna, in Piemonte. A proposito del valore riconosciuto alla gentilezza nel processo comunicativo nel rapporto Stato-cittadini, nel Comune di Omegna nel 2019 è stato redatto il Decalogo per la Comunicazione Gentile. L’autrice è Sara Rubinelli, assessora con delega alla Gentilezza. Questi Principi di comunicazione per il dialogo costruttivo in città, come recita il sottotitolo del decalogo, mettono in rilievo la necessità di manifestare attenzione all’interlocutore: in termini di qualità morali, essere gentili significa fare il bene dell’altro, ma costituisce anche un presupposto per essere ascoltati e risultare convincenti, ed è quindi funzionale allo sviluppo dell’autorevolezza personale.

Al contrario delle credenze tradizionali, rigide e autoritarie in termini di leadership, essere gentili non significa essere deboli, anzi! Ma è necessario differenziare una gentilezza fredda da una calda (Baxter, 2009), cioè una gentilezza esclusivamente formale (o addirittura falsa) da una autentica.

Chi sa esprimere idee, convincimenti e critiche in modo rispettoso e gentile manifesta autorevolezza personale, che generalmente si accompagna alla sensazione di benessere e di minor senso di frustrazione quando idee e proposte non sono accolte o sono respinte in modo netto. Ciò tende a funzionare nella direzione di prevenire eventuali conflitti interpersonali (Castiello d’Antonio e d’Ambrosio Marri, 2019).

SCUSARSI È “TERAPEUTICO”

Nel film La storia di Qiu Ju (1992), una contadina analfabeta esige le scuse del capo villaggio che ha violentemente preso a calci suo marito, e non vuole il denaro che il tribunale a cui si è rivolta le riconosce come indennizzo. Lei pretende, e alla fine ottiene, le scuse. La regia di Zhang Yimou e l’interpretazione di Gong Li rendono questo film un piccolo capolavoro, non a caso vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia, con la protagonista premiata come miglior attrice con la Coppa Volpi. Ecco che pretendere le scuse per critiche ben meno violente ma magari più sottili e pervasive diventa fondamentale per mantenere il senso della propria dignità, oltre che l’autorevolezza sociale nel contesto professionale, dove le occasioni per incrinare relazioni e climi sociali non mancano di certo. E, nei casi migliori, scusarsi fa bene anche all’aggressore: almeno a coloro che hanno ancora conservato un minimo di senso civile e di umanità.

Autore: Andrea Castiello d’Antonio è psicologo clinico, psicoterapeuta e psicologo delle organizzazioni. Già professore straordinario presso l’Università Europea di Roma, ha pubblicato ventidue volumi e oltre duecento articoli scientifici e divulgativi in diverse aree applicative della psicologia professionale.


 

COME COMUNICARE PER ESSERE LEADER

VEDIAMO QUAL È UNA COMUNICAZIONE OTTIMALE DA PARTE DI UN O UNA LEADER, CHE TENGA CONTO DELLE VARIE MODALITÀ IN CUI ATTUALMENTE SI È OPERATIVI IN UN’ORGANIZZAZIONE E DEL RISPETTO E DELLA VALORIZZAZIONE DELLA DIVERSITY.

Psicologia contemporanea

Se è vero che uno tsunami digitale travolge tutti i campi, non solo i media, come ha affermato Giampiero Gamaleri, sociologo e esperto di comunicazione, e se è sempre più attuale che il medium è il messaggio, come ha sostenuto McLuhan, rivoluzionando il campo delle teorie e comunicazioni di massa, oggi dobbiamo riflettere anche sui rapporti di comunicazione professionali in epoca di accelerato smart working. Soprattutto per meglio comprendere e approcciare come un/una leader comunica con i suoi collaboratori.

È chiaro che il contenuto della comunicazione ha un ruolo fondamentale, come lo hanno la dialettica dei rapporti sociali e quindi anche quella dei rapporti gerarchici e professionali all’interno dell’organizzazione. L’innovazione tecnologica e la velocizzazione dei tempi della relazione umana rendono quasi contemporanee azione e reazione, e lo spazio/tempo pensiero rischia di subire una riduzione pericolosa. Ciò soprattutto se va a scapito della riflessione che spesso è invece (per fortuna!) necessaria per rapportarsi in modo adeguato ed efficace nella relazione interpersonale, senza per questo inibire l’autenticità delle persone, ma, caso mai, attutendo la reazione spontaneistica e puramente emotiva nella dinamica dei rapporti.

CHI È LEADER DEVE AVERE (E COMUNICARE) CORAGGIO

Il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo ultimo discorso come presidente della BCE, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Economia da parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha voluto condividere tre valori chiave: conoscenza, coraggio e umiltà. In molti dovrebbero imparare da questo approccio, utile per la presa di decisione in ogni ambito di azione e di governo, politico, istituzionale, sociale e aziendale. È evidente che da tale approccio deriva una modalità comunicativa e di impostazione della relazione interpersonale-professionale, con interessanti implicazioni. Leader positivo non è chi urla o aggredisce colui che sbaglia, ma chi ottiene rispetto perché sa ascoltare e non smette di imparare dagli altri, i quali, come tali, propongono punti di vista anche differenti dal suo e quindi sono per lui una fonte di ampliamento di visuale e di arricchimento di informazioni. È da qui che l’umiltà si esplicita attraverso la forza della consapevolezza dei propri limiti, compresi quelli derivanti dai confini della propria competenza, e a questa si accompagna il coraggio di assumere decisioni, coscienti della quota di rischio che esse comportano, ma guardando con visione prospettica al futuro. Perché il potere positivo del leader non è una posizione di comando di per sé, ma la capacità di influenza e di decisione tramite la costruzione di consenso, fin dove è possibile, e tramite la presa di decisione responsabile, talvolta anche in eventuale solitudine.

COSTRUIRE E COMUNICARE CONDIVISIONE

Quando aumenta la complessità, i risultati non possono essere governati da una sola persona. Per capire cambiamenti, sfumature di scenario e imprevisti è necessario ampliare le prospettive e i punti di vista, quindi l’apporto di più approcci, di persone con visuali differenti, di pluralità generazionali nell’inquadrare problemi e inventare soluzioni, e la valorizzazione delle differenze diventano fattori di successo. Chi riesce a connettere tutto questo, la molteplicità degli sguardi e delle esperienze, è leader: non più un eroe-battitore libero, ma un soggetto che sa di essere relativo, funzionale e temporaneo rispetto alle necessità del gruppo dei collaboratori e dell’obiettivo da raggiungere. Per questo è fondamentale fare domande aperte, domande dirette, domande che sollecitano l’interlocutore a fornire informazioni sul perché della sua posizione o dei suoi dubbi. Ciò vale anche per il leader, dato che porsi dei dubbi è uno degli indicatori di intelligenza.

A proposito di leader e comunicazione nel gruppo e tra gruppi, va detto che i gruppi sviluppano una propria identità e dinamiche di esistenza. Ciò vale anche per i gruppi nelle organizzazioni di lavoro. E quando i gruppi hanno delle difficoltà, si tende a cercare al proprio interno il capro espiatorio, cioè la causa in quanto individuo, con tanto di colpevolizzazione che ne deriva, senza ricercare le ragioni dell’errore e apprendere tutti da esso. Nel rapporto tra gruppi si può cadere in giochi senza fine, come quello del narcisismo delle piccole differenze, di cui parla Sigmund Freud nel saggio Il disagio della civiltà, rispetto ai sentimenti di competizione e di ostilità che possono scatenarsi tra gruppi in parte anche simili. Ecco che pure su questi terreni chi gioca una leadership costruttiva e funzionale attiva processi di comunicazione che cercano di relativizzare le questioni, di disinnescare atteggiamenti e giudizi che assolutizzano singoli eventi o comportamenti di singoli, in modo da favorire un ancoraggio alla realtà e condividerne chiavi di lettura con i collaboratori, componenti del gruppo.

L’utilizzo del feedback sempre, ma in tali casi come non mai, è fondamentale. Aiutare il gruppo ad essere consapevole delle proprie risorse e dei propri limiti è un compito e una responsabilità di chi è leader. È anche su queste aree che si gioca la propria credibilità. Cosa non facile, perché il leader fa parte di un gruppo e di conseguenza non è super partes, non gioca neutro! L’importante, però, è che sia cosciente anche di questo elemento, in modo da far rientrare l’attenzione del peso di tale aspetto nella sua consapevolezza. In pratica, è importante che chi è leader non si trasformi in uno “sciamano” che affabula o affascina per il potere che ha e che gli è stato dato, perché, se egli adotta una comunicazione efficace in termini di consenso ma manipolatoria, azzerando cioè lo spirito critico dei suoi collaboratori, essi avranno, sì, fiducia in lui, ma cieca, a scapito della salvaguardia del loro benessere e di quello del gruppo e dell’organizzazione. E magari resteranno imbrigliati in una teoria del complotto presunta e ostentata dallo “sciamano” di turno, che fa sempre tanto comodo perché, come dicevano Pasolini e Umberto Eco (2017), «ci libera dal peso di doversi confrontare con la verità».

LEADER ONLINE O A DISTANZA

Essere un riferimento per i collaboratori anche a distanza! Ciò significa ascoltare i bisogni delle persone, dei collaboratori e, come leader, anticiparli, dare loro un senso, non solo rispondendo ai bisogni percepiti. E dare una direzione. Anche online è importante costrui­­re e consolidare la relazione di fiducia. La riconoscibilità dell’autorevolezza è frutto pure dell’affidabilità. Ciò è alla base delle relazioni di networking. Infatti nelle strategie di networking tra e con i collaboratori e colleghi gli elementi chiave sono: fiducia, essere utili e proporre una soluzione ai problemi, praticare il valore della reciprocità, non porsi come tuttologi, essere dei punti di riferimento connettivi del gruppo e riconoscere autonomia dell’altro, in particolare nel processo di delega.

L’intelligenza emotiva diventa allora un tratto importante del leader, intesa come la comprensione del gioco emozionale proprio e altrui in modo da riconoscere alcune dinamiche emotive che sottostanno a posizioni e comportamenti assunti come punta d’iceberg di bisogni percepiti, ma non necessariamente chiari dentro di sé o dichiarati. In questo campo potrebbero essere facilitati i leader dotati di empatia e molto sensibili, perché abili nel cogliere segnali deboli al di là dello schermo del PC e dei limiti imposti dalla piattaforma utilizzata per le call e le riunioni online. Ma la persona profondamente e altamente sensibile, dotata di forte capacità di osservazione e riflessione, molto altruista, tende a stancarsi prima, perché è sottoposta a forti pressioni derivanti dalla elaborazione maggiore di ogni evento. Questo almeno secondo gli studi della psicologa americana Elaine Aeron (1996) sui soggetti ipersensibili, che però possono poi diventare leader, come è successo a Mark Zuckerberg, o a Barack Obama, grazie al fatto che la loro ipersensibilità è – secondo gli studiosi – frutto di aree del cervello che si muovono con velocità di connessioni superiore alla media. Quindi, anche a distanza, un capo sensibile può esercitare un’ottima leadership (Owen, 2017), attivando il controllo in modo negoziato e su obiettivi raggiunti o di monitoraggio, anziché “ad alito sul collo” dei collaboratori.

LEADERSHIP E LINGUAGGI INCLUSIVI

Chi adotta una leadership positiva, anche senza ricoprire il ruolo di Diversity & Inclusion Manager presente in molte aziende, è persona attenta a «valorizzare manager e collaboratori quali portatori sani di differenti visioni culturali, arricchendo il ventaglio di approcci ad alcune importanti dimensioni del vivere organizzativo, come la gestione del tempo e dei metodi di lavoro, la percezione delle urgenze, l’utilizzo positivo dello spirito critico, l’interpretazione del task e delle aree di autonomia, il senso della gerarchia» (Castiello d’Antonio e d’Ambrosio Marri, 2017). L’approccio inclusivo, oltre che eticamente corretto e giusto, è un valore strategico di business, come dimostrano ricerche e dati in proposito. Non è cosa semplice, si tratta scardinare i pregiudizi e trasformare la cultura organizzativa, modificare l’assetto valoriale che magari ha caratterizzato la tradizione di una certa azienda e sconfiggere le “naturali” resistenze al cambiamento.

Uno strumento utile in tale direzione è la pratica di un ascolto attivo ed efficace, attraverso una sorta di orecchio uditivo attento a segnali “deboli”, che aiuta a non essere immediatamente valutanti, ma a sospendere per poi ampliare l’angolo di visuale delle questioni e dei bisogni dell’interlocutore (Castiello d’Antonio e d’Ambrosio Marri, 2019). Ciò si traduce anche in un comportamento organizzativo che pratica una comunicazione inclusiva, non discriminante, a partire dal linguaggio che si utilizza, sia verbale che non verbale. A ciò ha contribuito la diffusione del Diversity & Inclusion Management, come politica e approccio alla gestione delle risorse umane in ottica di valorizzazione delle differenze e di business. Il cammino e le prassi positive nel rapporto con la diversity (di età, cultura, orientamento sessuale ecc.) non sono facili, perché sollecitano questioni e dinamiche emotive di cui non è detto che si sia consapevoli e rispetto alle quali le resistenze inconsce e gli apprendimenti emotivi e culturali sviluppati nel tempo giocano in modo complesso (d’Ambrosio Marri, 2020).

Sul piano della comunicazione, un esempio in proposito è il manterrupting (dalla contrazione di “man” e “interrupting”), cioè la tendenza maschile – in riunioni, conversazioni, talk show – a interrompere più frequentemente le donne che parlano, rispetto agli uomini. Un altro esempio è l’utilizzo di linguaggi discriminanti di coloro (uomini e donne) che continuano a declinare al maschile ruoli professionali che finalmente cominciano ad essere svolti anche dalle donne e che, ancora utilizzati solo al maschile nei loro confronti, non rispecchiano la realtà, non veicolano i cambiamenti sociali che avvengono, non danno significato a ciò che invece esiste, perpetuando e rinforzando pregiudizi e discriminazioni, seppur sottili. Infatti, non dobbiamo dimenticare che le parole danno, assumono significato, e veicolano immagini, suscitano rappresentazioni. Sono sintomi di una cultura e producono cultura. Di solito, chi ha maggiori resistenze ribatte che una certa parola, se volta al femminile, è fastidiosa, suona male ecc., ma non dobbiamo dimenticare che l’abitudine è uno dei più insidiosi ostacoli al cambiamento. Inoltre, le parole per dirlo ci sono: senza disturbare Marie Cardinal (1975), la lingua italiana ha una grammatica dotata di articoli che definiscono e qualificano i generi – lo studiamo fin dalla scuola, ricordate l’analisi grammaticale, l’articolo maschile o femminile, l’aggettivo di genere maschile, femminile o neutro? –, l’Accademia della Crusca si è aggiornata, è stato appena pubblicato – scaricabile gratis online – Le parole delle donne (SGD, 2020), un saggio che spiega e/o attualizza alcuni vocaboli secondo la prospettiva delle donne.

Per tutte queste ragioni chi ha ruoli di leadership è importante che adotti dei linguaggi inclusivi, affinché la sua modalità espressiva sia da esempio e al contempo sia espressione del riconoscimento e del valore delle diversità con cui la vita e la realtà si esprimono. In ultimo, e proprio per evitare ambiguità di comunicazione, può essere utile ricordare che secondo Zygmunt Bauman (2003) il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione.

Autrice: Luciana d’Ambrosio Marri, sociologa del lavoro, coach e counselor, è consulente in gestione, formazione, sviluppo delle Risorse Umane, del Benessere Organizzativo e
Diversity & Inclusion Management.

 

Le 7 caratteristiche di un capo tossico

Un capo tossico è un capo che impiega in modo inadeguato il potere che deriva dal suo ruolo. Tutti gli studi sulla psicologia del lavoro indicano che un rapporto sano tra i vari membri di una squadra porta a maggiore produttività e ad un miglioramento dei risultati. Nonostante ciò, purtroppo, sono numerosi i dirigenti che fanno ricorso a comportamenti o metodi del tutto nocivi per i loro dipendenti.

Questi “leader” ricordano i rapporti che esistevano nei sistema feudali. Sono persone che hanno una concezione autocratica del potere e che non si preoccupano delle ripercussioni negative del loro comportamento. Percepiscono l’azienda o l’organizzazione come una macchina che deve funzionare alla perfezione e in cui i dipendenti subordinati sono solo dei pezzi dell’ingranaggio. Un capo tossico si concentra più sui risultati che sui processi.

È stato dimostrato che una leadership positiva genera un’efficienza maggiore. I rapporti democratici e orizzontali ottengono, con il tempo, maggiore rispetto da parte dei lavoratori. Un vero leader ha soprattutto un’autorità morale sugli altri. Non ha bisogno di sanzioni o punizioni affinché i suoi dipendenti si impegnino a raggiungere gli obiettivi dell’azienda, bensì motiva e premia per aumentare il loro senso di appartenenza e il loro impegno.

Un capo tossico, invece, usa la paura come arma. È questo lo strumento che impiega per far perseguire ai dipendenti gli obiettivi dell’azienda. Anche se a breve termine questo metodo potrebbe funzionare, a medio e lungo termine affossa l’azienda: i dipendenti, infatti, si sentiranno frustrati e coglieranno la prima occasione per abbandonare la compagnia. Per questo motivo, si tratta di un leader che risulta nocivo per tutta l’azienda. Oggi vi vogliamo illustrare alcune delle sue caratteristiche principali.

Caratteristiche di un capo tossico

1. È arrogante

Un capo tossico crede che ostentare il suo potere lo renda migliore degli altri. Non importa com’è arrivato a sedere dietro quella scrivania: si sente sempre superiore per il semplice fatto di essere un dirigente. Crede, inoltre, che, poiché è il capo, ha il diritto di trattare gli altri come se valessero meno di lui.

La sua arroganza si rende manifesta nei suoi gesti, nel tono che impiega quando parla e nel modo in cui dirige le attività. Vuole essere intimidatorio e interpreta il timore dei suoi dipendenti come un segnale positivo. L’arroganza, però, è sempre un segno di insicurezza e di mancanza di fiducia in se stessi e raramente corrisponde a una reale superiorità.

2. Non sa ascoltare né comunicare

Una delle caratteristiche più evidenti di un capo tossico è la sua difficoltà ad ascoltare gli altri. Una persona del genere crede che fare attenzione a ciò che dicono i dipendenti significhi dare loro un’importanza che non meritano. Ascoltare un subordinato equivale a ridurre il potere che si ha su di lui.

Un capo tossico non è nemmeno in grado di comunicare. Anzi, potrebbe addirittura rendere inutilmente complicate le sue istruzioni al semplice scopo di intimidire i suoi dipendenti. Utilizza espressioni categoriche nell’intento di sottolineare che è lui ad avere l’ultima parola su tutto. Tende a sminuire ciò che dicono gli altri con l’indifferenza o rispondendo in modo irrispettoso.

3. È inflessibile e maniaco del controllo

Un capo tossico non capisce la differenza tra dirigere e controllare. Non ha nemmeno idea della differenza tra essere un leader e comandare. Non si fida delle persone con cui lavora e per questo crede che la migliore strategia sia controllare ogni loro azione, anche la più piccola. Dà per scontato che il suo ruolo sia soprattutto di controllo e punizione costante dei comportamenti che ritiene inadeguati.

Un capo tossico è anche inflessibile: vede sempre tutto o bianco o nero. Crede che essere forte equivalga a essere rigido e che un atteggiamento troppo flessibile possa farlo apparire debole agli occhi degli altri. Per questo motivo, non ammette discussioni sui suoi ordini o sulle idee che impone. Le cose devono essere fatte esattamente come dice lui: altrimenti, si incorre in una punizione.

4. Non è capace di gestire i conflitti

I capi tossici vedono la rabbia di buon occhio. Partono dal presupposto che il malumore e l’irritabilità siano segno di serietà e responsabilità nel lavoro. Interpretano questi atteggiamenti come un’espressione di impegno e rigorosità. Per questo, spesso danno ordini in tono rabbioso o credono di poter risolvere un problema urlando. Credono di avere il diritto di “sgridare” i loro dipendenti.

Se hanno un problema con uno dei dipendenti, di solito lo risolvono attraverso nuovi ordini o applicando delle sanzioni. Non si interessano alle reazioni o allo stato d’animo dei loro collaboratori. Credono che se non rispettano le regole in tutto e per tutto, lo fanno per mancanza di voglia o di personalità. Un capo tossico genera un’atmosfera di tensione e repressione in ufficio, perché ritiene che sia il modo migliore di mantenere un buon ritmo di lavoro.

5. Rifiuta qualsiasi iniziativa

Avere iniziativa è un segno di autonomia, forza e capacità. Per questo, per un capo tossico i dipendenti che dimostrano intraprendenza rappresentano una minaccia. Un capo del genere arriva persino a pensare che gli impiegati si stiano prendendo delle libertà che non dovrebbero avere o interpreta le proposte altrui come una sfida alla sua autorità. Respingono, dunque, qualsiasi persona che abbia spirito di iniziativa o proponga delle idee per migliorare il lavoro.

Per un capo del genere c’è solo un modo di fare le cose: il suo. I dipendenti capiscono in fretta questa logica e imparano che pensare con la loro testa o cercare di proporre miglioramenti equivale a provocare il capo. Tutto questo va a discapito dell’azienda, che si vede privata dei dipendenti che potrebbero alimentarla con iniziative utili per l’organizzazione o la produttività dell’impresa.

6. Non sa gestire il tempo

Un’adeguata gestione del tempo è fondamentale per evitare intoppi nelle attività. Uno degli aspetti che rende un capo un pessimo dirigente è proprio la gestione sbagliata del tempo. Questa include una cattiva pianificazione delle attività o errori nel determinarne la priorità.

Un comportamento tale da parte di un dirigente genera un ambiente di lavoro caotico. Molto spesso bisognerà portare a termine alcuni compiti in tempo record. Altre volte ci saranno periodi in cui non c’è niente da fare. In questi casi, i dipendenti stessi proveranno una sensazione di instabilità e disordine che genererà una dose maggiore di stress e tensione.

7. Ignora i bisogni degli impiegati

Un cattivo capo non ha idea di quali siano i bisogni dei suoi lavoratori. Di fatto, non è minimamente interessato a scoprirlo. Crede che le relazioni di lavoro debbano essere del tutto distaccate dagli aspetti personali e che questi siano irrilevanti per lo svolgimento delle attività lavorative quotidiane. Tutto questo è un ostacolo all’interno del panorama lavorativo.

Un capo tossico è convinto che i bisogni personali dei lavoratori non abbiano niente a che fare con la loro produttività. Poiché vede tutto bianco o nero, dà per scontato che un problema personale nella vita di un impiegato sia solo una scusa per non portare a termine il lavoro o per giustificare un errore. Queste persone non riescono a vedere i loro impiegati come delle persone, solo come dei lavoratori.

Anche se in ogni paese ci sono leggi che hanno l’obiettivo di proteggere i lavoratori, la verità è che ci sono ancora molti capi che si muovono al confine tra legalità e illegalità. Fingono di non conoscere i diritti dei loro impiegati e utilizzano la scusa della “volatilità” delle relazioni umane per nascondere i loro abusi.

I capi tossici abbondano, specialmente nei periodi di crisi. Sanno che possono oltrepassare il limite e che buona parte dei loro impiegati non dirà nulla per paura di perdere il lavoro. Tuttavia, ogni lavoratore dovrebbe essere consapevole dei suoi dirittie avere la possibilità di segnalare, pur sempre in modo rispettoso, quando sente di essere vittima di un maltrattamento.

(Fonte “La mente è meravigliosa“)

 

Il Capo, temuto o amato?

Vi sono dei capi che preferiscono essere temuti, e altri che invece preferiscono essere amati. Tutti ovviamente desiderano eccellere, essere ammirati, ma i primi vogliono anche reverenza, rispetto, timore. E’ l’atteggiamento del professore che incute paura, davanti a cui ti mancano le parole. O del dirigente che esige un atteggiamento dimesso e, se lo contrasti, ti minaccia e non esita a licenziarti. E’ convinto che la gente ubbidisce solo se teme di venir punita. Sicuro che molti aspirano a prendere il suo posto, diffida di loro. Guardando alla storia troviamo molti dittatori o sovrani, severi, che non hanno mai fraternizzato né con i compagni, né con il popolo.
Pensiamo a Filippo II, o Francisco Franco.

Il secondo tipo umano, invece, desidera che la stima e l’ammirazione siano accompagnate da un caldo sentimento di affetto. Vorrebbe esser ubbidito perché la gente crede nella sua lungimiranza, nella sua buona fede, nella sua generosità.
Vorrebbe essere amato ed ammirato come un grande attore per la sua bravura. Sta volentieri con i suoi compagni, cerca il contatto col popolo. Ci sono imprenditori di questo tipo. Ma soprattutto grandi generali che stavano in mezzo ai loro soldati, oppure leader popolari come Evita Peron.
Non si tratta solo di due diversi stili di comando, ma di due diverse personalità.

Il primo è introverso, freddo, sospettoso, dotato di un ferreo autocontrollo. Non mostra le sue emozioni. Non ama la compagnia, non ammette persone estranee in famiglia, non si confida con nessuno, non chiede consigli. Pensa sempre di risolvere i problemi con la forza. Decide da solo e non avverte gli altri delle sue decisioni. Non sopporta di essere contrariato. Non si fida degli uomini, li teme. Odia gli avversari, annienta i nemici vinti. Non prova riconoscenza e non crede nella riconoscenza altrui.

I capi di questo tipo hanno diversi vantaggi: non si fanno cogliere di sorpresa e, poiché distruggono gli avversari, non corrono il pericolo di essere traditi. Hanno anche due debolezze. Non informando, non chiedendo consigli, possono fare errori grossolani che nessuno corregge. Inoltre, non essendo amati, non appena le cose vanno male tutti li abbandonano.
Il secondo tipo umano, invece, è estroverso, emotivo e non si vergogna di mostrare le proprie emozioni.
E’ estremamente sicuro di sé, delle proprie capacità. Accoglie in casa collaboratori ed amici e, sul lavoro, opera in gruppo.

Domanda a tutti il loro parere, discute i problemi. Poiché vuol essere amato, è cordiale, generoso, vuol sempre mettere d’accordo tutti. Cerca di ingraziarsi anche i nemici. Dà fiducia e ci resta malissimo quando l’altro non corrisponde alle sue aspettative o lo tradisce.
Non è vendicativo e dimentica i torti subiti. E’ entusiasta e trasmette entusiasmo.
I capi di questo tipo, nei momenti di disgrazia, possono sempre contare sulla dedizione dei loro fedeli. Hanno però due debolezze.

Poiché vogliono sentirsi amati, fanno fatica a prendere misure drastiche o impopolari, inoltre si illudono di conquistare i nemici con la gentilezza e la generosità. Così, rischiano di venir uccisi, come Cesare, proprio da coloro che hanno beneficato.

Autore: Francesco Alberoni


Nota: Le informazioni qui riportate hanno carattere puramente divulgativo e orientativo, non sostituiscono consulenza medica o psicologica. Eventuali decisioni che dovessero essere prese dai lettori, sulla base dei dati e delle informazioni qui riportate sono assunte in piena autonomia decisionale e a loro rischio.

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