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Farmaci, un mercato regolato

Sinora, nel decidere il prezzo, le industrie si sono basate su un solo criterio: quanto il “mercato” è disposto a pagare. Per contenere la spesa farmaceutica, più che cercare di far diminuire i prezzi, la parola d’ordine è stata appropriatezza nella prescrizione dei farmaci, perché gli abusi e gli sprechi erano frequenti e quasi sfrenati

Lucio Luzzatto 07 settembre 2014 Domenica24 Il Sole 24ORE

È giusto che una bottiglia di Brunello di Montalcino costi 130 euro? La domanda c’entra poco con la giustizia. Chi andrebbe a indagare quanto è costato produrlo, e quanto è il margine di profitto? Tanto la maggior parte di noi si accontenta di un ottimo rosso Toscano che costa 8-10 euro. Ben diversa è la questione quando si tratta di un farmaco: se un malato ha una setticemia non si può usare l’aspirina al posto dell’amoxicillina, o in alcuni casi di un antibiotico anche assai più costoso.

È per noi una fortuna che a pagare in Italia, e in molti Paesi dell’Europa sia il Servizio sanitario nazionale (che giustamente vive delle nostre tasse); e sinora relativamente poche domande sono state fatte su che cosa determini i prezzi dei farmaci. È stato accettato, stranamente per alcuni di noi, che valgano per i farmaci le stesse leggi di libero mercato che valgono per il vino. Eppure almeno due differenze sono lampanti. 1) Nel caso del vino abbiamo una scelta: possiamo comprare il Brunello, o un vino meno caro, o rimanere astemi; nel caso dei farmaci, invece, sovente ne va della vita. 2) Nel caso del vino la concorrenza è palese e vivace: per rimanere nel settore lusso, il Brunello compete con il Barolo o l’Amarone; nel caso dei farmaci, invece, sono sempre più i casi di malattie, rare o meno rare, nelle quali il farmaco veramente efficace è uno solo, e per 10-20 anni è protetto da esclusività. Pertanto, se due cardini del libero mercato sono la libertà dei prezzi e la concorrenza, si vede subito che per i farmaci uno dei due già manca.

La spirale della spesa farmaceutica è preoccupante, non solo per gli esperti di farmaco-economia. In pratica c’è stato sinora un certo grado di dicotomia non scritta: farmaci per malattie comuni che costano relativamente poco (anche se sempre di più); e farmaci per malattie rare che costano moltissimo (fino a 330mila euro all’anno per una malattia che dura molti anni). Alcuni mesi fa questa dicotomia è stata infranta, quando in Usa la Fda ha approvato il sofosbuvir (prodotto dalla Gilead con il nome commerciale Sovaldi), attualmente l’unico farmaco che, in combinazione con altri pre-esistenti, può non solo curare, ma guarire l’epatite C: ve ne sono circa 2,7 milioni di casi negli Usa, e circa un milione in Italia. Prezzo: 1.000 dollari per pasticca; un ciclo di cura (e non sempre basta) ne richiede 84 (per 84mila dollari). Alcuni di noi pensano da tempo che il libero mercato dei farmaci dovrebbe essere temperato da regole; ora ci giunge un assist da fonte impensata: il Senato degli Stati Uniti. Il Chairman del Finance Committee del Senato americano ha dato 60 giorni di tempo alla Gilead per rispondere a dozzine di domande, che vanno dal loro business plan, alla rendicontazione delle spese sostenute in passato e attualmente per la produzione del farmaco, alle modalità di promozione, e via dicendo.

È chiaro che il movente della lettera del Senato è di carattere economico. Anche facendo una selezione dei casi più urgenti da trattare, si contemplano spese di miliardi di dollari. Il «Financial Times» di Londra, che in un documentato articolo di luglio ha dato ampio rilievo a questa lettera, cita altri elementi che hanno causato il risentimento del Senato: soprattutto che il sofosbuvir verrà venduto con uno “sconto” del 30% in Gran Bretagna e del 99% in Egitto, dove una pasticca costerà 11 dollari anziché 1.000 dollari. Significa che il prezzo in Usa è enormemente gonfiato, o che gli americani pagano per lo “sconto” concesso ad altri Paesi? A noi sembra che il punto centrale sia questo: il prezzo di un farmaco non può più essere arbitrario; deve essere giustificato dalle spese effettivamente sostenute, pur concedendo un ragionevole margine di profitto. In altre parole, questo caso limite ha portato alla ribalta il fatto che sinora, nel decidere il prezzo, le industrie si sono basate su un solo criterio: quanto il “mercato” è disposto a pagare. Hanno applicato la legge del Brunello; con la differenza che se nessuno compra più il Brunello il prezzo calerà, mentre i pazienti con epatite C non hanno l’opzione di fare a meno di sofosbuvir se vogliono guarire.

Negli ultimi anni Aifa (Agenzia italiana farmaci) ed Ema (European Medicine Agency) hanno lavorato spesso assai bene e hanno imposto norme più stringenti per ottimizzare l’impiego dei farmaci, ivi compresi quelli più costosi; e si sono fatti progressi nella cultura dei medici. Sinora, per contenere la spesa farmaceutica, più che cercare di far diminuire i prezzi, la parola d’ordine è stata appropriatezza nella prescrizione dei farmaci, perché gli abusi e gli sprechi erano frequenti e quasi sfrenati. Ora che l’appropriatezza è migliorata, è tempo di affrontare un’anomalia macroscopica: Ema approva i nuovi farmaci per tutta l’Europa, ma non ha da questa il mandato di negoziare i prezzi. Per correggere questa anomalia non occorre attendere gli Stati Uniti d’Europa (che alcuni di noi auspicano): si tratta di una decisione politico-economica che si potrebbe prendere subito, e che farebbe dell’Europa il più grosso cliente del mondo per qualunque farmaco.

Redazione Fedaisf

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