
“No al passaggio di medici di famiglia al rapporto di dipendenza diretto con il Servizio sanitario nazionale, perché tale passaggio maschererebbe in realtà una privatizzazione della medicina generale”.
A sottolinearlo all”ANSA Silvestro Scotti, segretario della FIMMG, secondo il quale tale ipotesi verrebbe rifiutata dai giovani medici per la mancanza di attrattività del sistema pubblico e ciò determinerebbe inevitabilmente la diffusione di strutture private e di ‘cooperative di medici di famiglia a gettone’.
“Se si realizzasse questa ipotesi – afferma Scotti – personalmente mi dimetterei dal Ssn, perché non credo che la dipendenza sia un modello di assistenza adeguato per l’offerta di cure primarie ai cittadini in un rapporto fiduciario. E le dimissioni potrebbero essere un gesto messo in atto da moltissimi medici”.
Inoltre, “si metterebbe a rischio anche la sopravvivenza dell’attuale ente previdenziale dei medici di famiglia, l’Enpam. Sono quasi 10mila i medici di Medicina generale che avrebbero già diritto alla pensione dall’Enpam. Si rischiano dunque dimissioni di massa”.
“Al momento – assicura Scotti – il ministro della Salute nega il proprio interesse per il passaggio alla dipendenza, come mi ha confermato in un recente incontro, ma ci sono pressioni da parte di alcune Regioni, che chiedono di risolvere il problema della necessità di medici per garantire il funzionamento delle nuove Case della salute”.
A questo proposito, tuttavia, Scotti ricorda che già nell’ultimo contratto di convenzione con il Ssn, firmato nell’aprile 2024, “ci sono gli strumenti per definire la partecipazione oraria dei medici di famiglia nelle case di comunità.
Non servono dunque altri atti legislativi, ma serve che le Regioni definiscano la programmazione della presenza dei medici nelle Case di comunità e la loro distribuzione sul territorio”. Con la convenzione infatti, conclude, “si prevede un monte che va da 6 a 38 ore da dedicare proprio alle attività connesse con le Case di comunità”.
Fimmg 4 febbraio 2025 da fonte Ansa
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Comunicato SNAMI
Un sondaggio condotto su 1051 medici italiani, sia convenzionati che non convenzionati, ha evidenziato una crescente richiesta di stabilità contrattuale, in particolare tra i medici più giovani e quelli che operano nel Sud Italia.
Davide Fabbrica, responsabile centro studi SNAMI che ha condotto la ricerca, ci rivela i dati: “Tra i medici convenzionati, il 62% desidera mantenere il proprio contratto. Tuttavia, al Sud emerge una tendenza opposta: il 59% preferirebbe un contratto di dipendenza, una percentuale significativamente più alta rispetto al Nord e al Centro (33%).
I medici più giovani manifestano una maggiore insoddisfazione per i contratti attuali rispetto ai colleghi più anziani, evidenziando l’urgenza di una riforma contrattuale che possa rispondere alle loro esigenze.
Gli uomini sono più propensi a preferire il mantenimento del status convenzionato (66%), ma tra loro una percentuale significativa (33%) vorrebbe passare a un contratto di dipendenza.
Nelle donne spicca invece maggiormente la volontà il passaggio ad contratto di dipendenza (40%), considerato le scarse garanzie offerte dalla convenzione, ma ancora una percentuale significativa (58%) preferisce rimanere convenzionata.”
“Questi dati confermano quanto il nostro sistema sanitario stia attraversando una fase critica,” dichiara Angelo Testa, Presidente dello SNAMI, “I medici italiani sono costretti a scegliere tra la flessibilità del sistema convenzionato e la sicurezza del contratto di dipendenza, senza trovare una vera valorizzazione della loro professionalità. È necessario ripensare il sistema contrattuale per andare incontro alle esigenze di stabilità, soprattutto dei giovani e delle donne, oramai prevalenti in termini di forza lavoro, e al contempo preservare l’autonomia e l’efficienza che caratterizzano il modello convenzionato.”
“Non possiamo ignorare il malcontento che emerge da questo sondaggio,” conclude Testa. “È nostro dovere lavorare affinché i medici italiani possano operare in un contesto che li valorizzi e li supporti, per il bene del nostro sistema sanitario e dei pazienti.”
La bozza di Riforma
La bozza di riforma, visionata in anteprima dal Corriere della Sera, prevede che i medici di famiglia diventino dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Dovranno lavorare 38 ore settimanali, con un minimo di ore dedicate ai pazienti e il resto per la programmazione territoriale, garantendo una presenza costante per i cittadini. Ecco le novità previste.
“Un cambiamento epocale”. Così il Corriere della Sera definisce la bozza di riforma, un documento di 22 pagine che ha letto in anteprima, che modifica il rapporto tra i medici di famiglia e il Servizio sanitario nazionale. Al momento, i medici di medicina generale sono lavoratori autonomi pagati dal Snn, il che permette loro di organizzare autonomamente il proprio tempo e il proprio lavoro. Se la bozza di riforma entrerà in vigore, i nuovi medici di base diventeranno dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, proprio come i medici ospedalieri. Ecco nel dettaglio le novità previste dalla bozza di riforma, finalizzata a garantire un’assistenza più capillare e a far funzionare le 1.350 Case della Comunità finanziate con 2 miliardi di euro dal Pnrr.
Le principali novità contenute nella bozza
Le novità principali contenute nelle bozza, sostenuta dal ministro della Salute Orazio Schillaci e dalle Regioni, sono tre. La prima riguarda l’attività di assistenza primaria in medicina e pediatria: per migliorarla, si stabilisce che debba esserci un “rapporto di impiego” diretto. La seconda novità riguarda il cambiamento del rapporto tra il Servizio sanitario nazionale, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta che non sono dipendenti del Ssn. Questo tipo di rapporto è destinato a esaurirsi nel tempo. In base a quanto scritto nella bozza, i nuovi medici di famiglia saranno assunti, mentre quelli già in servizio potranno scegliere se continuare come liberi professionisti o passare a un contratto da dipendenti del servizio sanitario. La terza novità stabilisce che i medici dovranno operare “sia presso gli studi sia presso le Case della Comunità”, strutture dove i cittadini potranno trovare medici di famiglia e specialisti disponibili dalle 8 del mattino alle 8 di sera, in grado di offrire servizi diagnostici avanzati, come elettrocardiogrammi, ecografie e spirometrie.
Come potrà funzionare il nuovo modello di assistenza?
La bozza di riforma stabilisce che i medici di base dovranno lavorare 38 ore alla settimana, mentre attualmente il minimo garantito varia tra le 5 e le 15 ore, a seconda del numero di pazienti. In particolare, si specifica che queste 38 ore dovranno essere suddivise in base al numero di assistiti, secondo il seguente schema:
• fino a 400 assistiti: 38 ore da rendere nel distretto o sue articolazioni, delle quali 6 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;
• da 401 a 1.000 assistiti: 12 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;
• da 1001 a 1.200 assistiti: 18 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;
• da 1.201 a 1.500 assistiti: 21 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;
• oltre a 1.500 assistiti: 24 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale.
Ciò significa che se la modifica dell’impianto legislativo vigente andrà in porto, il medico di famiglia dovrà seguire le indicazioni del distretto sanitario, alternando il lavoro con i propri pazienti a quello a disposizione della comunità. In questo modo verrà garantita ai cittadini la presenza di un medico di famiglia durante l’intera giornata e tutta la settimana.
Cambia anche la formazione
Sono previste anche importanti novità per il sistema di formazione. Attualmente, per diventare medico di medicina generale, un medico neolaureato deve frequentare un corso di formazione triennale gestito dalle Regioni. La bozza di riforma propone di trasformare questo corso in un corso di laurea specialistico di 4 anni, con docenti qualificati, come accade per la formazione dei medici ospedalieri.
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