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LASCIA PERPLESSI LA STATINA DA BANCO

l delisting, o lo switch o come si preferisce chiamarlo, è uno dei temi caldi delle strategie dell’industria del farmaco. In effetti, a rendere appetibile il collocamento tra gli OTC di un farmaco di successo oggi contribuiscono diversi fattori. In primo luogo, è ovvio, lo spirare delle coperture brevettuali e, almeno laddove ci sono terzi paganti, il tagliare corto con le questioni rirmborsi e prezzi di riferimento. Certamente, però, il grosso guadagno verrebbe dall’ingresso nell’area dell’automedicazione del trattamento delle malattie croniche. Una prima avvisaglia è stata l’arriovo dell’orlistat in versione da banco: è vero che l’obesità non è a rigore una condizione cronica, o non dovrebbe esserlo, ma è comunque una patologia più hard dei disturbi stagionali o comunque occasionali che normalmente trovano nell’OTC una soluzione. ben più impegnativa, invece, è la via percorsa da Merck, ormai da anni impegnata a spingere lo switch della lovastatina nel dosaggio da 20 mg, cioè il più basso. Una scelta che ha anche trovato il supporto di opinion leader anche autorevoli ma che, comunque, non piace per ora alla Food and Drug Administration.
Lasciando da parte le ragioni commerciali, i motivi per il passaggio alla statina da banco sono essenzialmente due. Uno è di ordine generale: la prevenzione delle malattie a larghissima diffusione sfugge in qualche modo ai servizi sanitari pubblici, che non possono per ragioni economiche e organizzative seguire tutti coloro che ne avrebbero bisogno e, dunque, l’autogestione può essere una risposta. L’altro motivo, che è molto statunitense, è che parecchi di coloro che hanno un rischio cardiovascolare lieve-intermedio non hanno una copertura assicurativa e anche coloro che ce l’hanno non è detto che ottengano la prescrizione di questi farmaci e, si può aggiungere, con la statina da banco si risparmierebbe il costo della visita per la ripetizione della prescrizione.
Però la questione non è così semplice e lo ricorda molto dettagliatamente un editoriale del New England Journal of Medicine.  A deporre contro questa innovazione, peraltro già bocciata tre volte dalla commissione ad hoc della Food and Drug Administration, concorrono diversi fattori. Alcuni sono di natura epidemiologica e clinica. Per esempio, le persone a basso rischio individuate come utenza preferenziale hanno una possibilità del 5-10% di sviluppare un ischemia miocardica o un infarto nell’arco di 10 anni; con la statina da banco si ridurrebbe il rischio al 3,5-7%, cioè un guadagno limitato a fronte del quale anche i contenuti effetti indesiderati delle statine assumono una certa rilevanza. Infatti, negli studi clinici controllati, la lovastatina aveva mostrato di ridurre il rischio del 30%.

C’è poi da considerare che per il passaggio di un farmaco alla vendita senza ricetta è fondamentale che il singolo sia in grado di capire se il singolo farmaco fa al caso suo e mentre è facile per tutti capire se si ha il raffreddore o il mal di testa, non altrettanto intuitivo è il concetto di rischio cardiovascolare. Tanto è vero che i soli nuovi studi che negli Stati Uniti vengono richiesti ai produttori riguardano proprio la capacità del pubblico di comprendere sulla base del foglietto illustrativo se lui ha bisogno o meno del farmaco. Per inciso, quelli condotti sul foglietto della statina non hanno avuto risultati incoraggianti: anche tra i volontari che hanno partecipato agli studi sulla comprensione e il corretto impiego, che sono comunque più acculturate della popolazione generale, meno della metà ha stabilito correttamente se aveva bisogno realmente del farmaco. Il 30% circa aveva un rischio ancora inferiore al 5%, mentre il 24% aveva un rischio

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