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IBL. I biosimilari e il prezzo dei diritti

Riportiamo un estratto della Position Paper dell’Istituto Bruno Leoni (IBL) sui farmaci biosimilari.


I farmaci non sono equiparabili agli altri beni, e la loro funzione curativa alimenta la tendenza a escluderli dalle normali dinamiche di mercato. L’accesso ai farmaci, di conseguenza, è formalmente garantito.

Se infatti la salute universale sembra ‘gratuita’, non lo è affatto: la pagano i contribuenti, attraverso la spesa pubblica, e la stessa economia che ruota intorno alla salute, attraverso gli investimenti necessari allo sviluppo di servizi e prodotti. La salute, quindi, ha un costo, composto di componenti fisse e di altre più variabili. Tra queste ultime, la spesa farmaceutica, proprio perché tra le più regolamentate e monitorate su tutta la filiera, è quella che più si presta a tagli per ottenere risparmi.

Esiste però qualche ombra: sia sul concetto di diritto universale e fondamentale alla salute è il caso, ad esempio, della prescrizione per principio attivo, o dei ‘conflitti di interesse’ tra obiettivi di risparmio e obiettivi di cura. Da ultimo, è il caso dei farmaci biosimilari rispetto agli originatori.

Il concetto di “farmaco biosimilare” è stato introdotto dalla Direttiva 2001/83/EC dell’Unione europea, recepita in Italia dal decreto legislativo n. 219/2006, secondo cui “quando un medicinale biologico simile a un medicinale biologico di riferimento non soddisfa le condizioni della definizione di medicinale generico a causa, in particolare, di differenze attinenti alle materie prime o di differenze nei processi di produzione del medicinale biologico e del medicinale biologico di riferimento, il richiedente è tenuto a fornire i risultati delle appropriate prove precliniche o delle sperimentazioni cliniche relative a dette condizioni” [n.d.r.: art. 10 comma 7]

L’elaborazione dei medicinali biologici non è immediatamente e facilmente trasferibile da un laboratorio all’altro, a differenza dei farmaci tradizionali, conducendo la comunità scientifica a concludere che il processo di produzione di tali farmaci sia talmente caratterizzante da costituire esso stesso, in un certo senso, il prodotto finito.

Emerge da queste differenze la necessità di prevedere un diverso e più complesso percorso autorizzativo per i biosimilari rispetto ai farmaci generici.

Nel 2017, i consumi delle otto molecole biosimilari in commercio in Italia sono cresciuti del 74% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il 19% dei consumi totali (originator e biosimilari).

E’ assolutamente necessario che vi sia chiarezza ed esatta definizione delle responsabilità di ciascuna delle istituzioni coinvolte nella tutela della salute, per evitare che gli già precari equilibri in gioco tra esigenze di risparmio, diritto alla salute e necessità di ritorno degli investimenti in ricerca e sviluppo non compromettano ora l’una ora l’altra di tali esigenze.

La procedura di autorizzazione all’immissione in commercio dei farmaci biosimilari, prevista all’interno delle linee guida pubblicate periodicamente dall’EMA, è diversa da quella prevista per i farmaci generici. Mentre per questi ultimi è sufficiente presentare i risultati degli studi di bioequivalenza, i biosimilari – contenendo un principio attivo simile, ma non identico a quello del medicinale biologico di riferimento – richiedono la dimostrazione della sua comparabilità con il prodotto originator.

La legislazione italiana stabilisce che soltanto l’EMA e l’AIFA possono accertare l’esistenza di un rapporto di biosimilarità tra due prodotti, che non è in ogni caso consentita la “sostituibilità automatica” tra farmaco biologico di riferimento e biosimilare o tra biosimilari, e che di conseguenza l’AIFA non può inserire nelle liste di trasparenza i farmaci biosimilari.

Fra i dubbi interpretativi affrontati dai tribunali amministrativi regionali e dal Consiglio di Stato, i più importanti riguardano da una parte il riconoscimento della sostituibilità, dall’altra le raccomandazioni e i vincoli prescrittivi da parte delle regioni.

Il tema più controverso che emerge dalla giurisprudenza in materia di biosimilari è certamente quello relativo alle condizioni e ai limiti entro cui le Regioni possano incentivare la prescrizione di determinati farmaci, a scapito di altri, da parte di ASL e medici, specialmente laddove tale necessità sia motivata non da ragioni cliniche, ma di finanza pubblica.

Il Consiglio di Stato ha ravvisato l’imprescindibile necessità del riconoscimento di equivalenza terapeutica da parte dell’AIFA, e la conseguente illegittimità dei provvedimenti regionali adottati in carenza di tale previa valutazione.

Il Consiglio di Stato fra i molteplici equilibri in gioco ribadisce il rispetto dell’autonomia prescrittiva del medico. Le regioni, pertanto, possono certamente raccomandare l’utilizzo di determinati farmaci, anche tenendo conto di un possibile risparmio atteso da tale scelta da parte dei medici, mentre non possono vincolare a risultati economici precisi i medici curanti e i dirigenti delle strutture sanitarie, né a maggior ragione monitorare il grado di raggiungimento di tali risultati. La previsione di obiettivi definiti e il loro monitoraggio, infatti, condizionano inevitabilmente il medico curante, non garantendo invece la necessaria autonomia del medico nella valutazione dei singoli casi e delle singole eccezioni alle raccomandazioni delle regioni (Cons. Stato, sez. III, n. 4546/2017. V. anche TAR Lazio, sez. III, n. 2671/2018, e TAR Lazio, sez. III, n.2650/2018).

Nel marzo 2018 l’AIFA ha pubblicato un position paper per chiarire la propria posizione in merito ad alcune delle questioni sollevate.

Nel documento del marzo 2018, l’AIFA ha aggiunto al quadro individuato la considerazione che – per quanto la scelta di trattamento rimanga una decisione clinica affidata al medico prescrittore – a quest’ultimo sia anche affidato il compito di contribuire a un utilizzo appropriato delle risorse ai fini della sostenibilità del sistema sanitario”.

Considerato però che “il rapporto rischio-beneficio dei biosimilari è il medesimo di quello degli originatori di riferimento” – l’AIFA “considera i biosimilari come prodotti intercambiabili con i corrispondenti originatori di riferimento”. Inoltre, tale considerazione vale “tanto per i pazienti naive quanto per i pazienti già in cura”.

La decisione dell’AIFA stabilisce per la prima volta l’intercambiabilità dei farmaci biosimilari con i corrispettivi originator, sia per i pazienti già in cura che per quelli mai trattati.
Il rischio, tuttavia, è che la situazione possa presto modificarsi come accaduto, per quanto riguarda i farmaci equivalenti, tramite il decreto Balduzzi [D.l. n. 95/2012, convertito in legge n. 135/2012].che ha introdotto l’obbligo, e non più soltanto la facoltà, per medici e farmacisti di indicare il generico, laddove presente, invece del prodotto branded.

Come può dirsi realmente universalistico un sistema in cui la spesa farmaceutica deve essere “commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie”, [Corte Cost., n. 356/1992] e in cui al medico prescrittore è affidato il compito non solo di curare i pazienti, ma “di contribuire a un utilizzo appropriato delle risorse ai fini della sostenibilità del sistema sanitario”? [AIFA, Secondo Position Paper AIFA sui Farmaci Biosimilari, 27 marzo 2018, p. 22].

In un sistema sanitario che proclama di garantire universalmente il diritto alla salute, il rischio è che da tale filo conduttore si generi un’illusione di accesso alle cure che nasconda, invece, una realtà ben più complessa e critica. Il costo non può certo rappresentare un criterio prioritario di scelta per il regolatore, se non altro rispetto ad altri criteri quali la sicurezza sanitaria e la salute delle persone, in un modello che voglia realmente dirsi universale.

Il rischio che le valutazioni di ordine tecnico/scientifico che dovrebbero orientare l’azione del legislatore, dell’AIFA e delle regioni finiscano per prediligere le esigenze finanziarie a quelle cliniche, pregiudicando così l’autonomia e la libertà dei medici, con effetti discutibili sia dal punto di vista degli obiettivi di contenimento della spesa sia, a maggior ragione, dal punto di vista della tutela della salute collettiva. Direttori generali e medici, in alcuni casi, potrebbero trovarsi a dovere dirimere un vero e proprio conflitto di interessi.

Bisogna tenere in considerazione, in questo senso, che maggiori risorse risparmiate dalle regioni sul costo sanitario non corrispondono necessariamente a maggiori risorse in capo ai cittadini, ma rischiano invece di concretarsi in somme di denaro pubblico riutilizzato dalle regioni per scopi la cui opportunità andrebbe perlomeno valutata previamente, in un’ottica di costi-benefici, rispetto alla spesa farmaceutica.

In linea generale, pertanto, l’utilizzo di farmaci biosimilari o originator dovrebbe corrispondere alle diverse e specifiche casistiche, valutate secondo criteri medico-scientifici dai medici curanti, in autonomia e potendo godere di responsabilità e di libertà prescrittiva. Una prospettiva, quest’ultima, confermata anche dall’AIFA, che ha recentemente ritenuto la discrezionalità riconosciuta al medico alla stregua di “una garanzia per i pazienti”.

Un diverso indirizzo, volto a selezionare cure e terapie sulla base di ragioni di contabilità, potrebbe compromettere il diritto alla salute come concepito nel nostro ordinamento. Ma non solo: intervenire a valle sul problema del costo della sanità pubblica è, per l’ennesima volta, un tentativo di negare agli stessi cittadini che quel problema esista, di fatto acuendolo col passare del tempo. Se, al contrario, si volesse correttamente affrontare il problema fin dalla radice, si dovrebbe dichiarare in modo trasparente che il sistema sanitario nazionale carica su di sé una serie di costi che non solo esistono, ma che risultano, allo stato attuale, sempre meno sostenibili di fronte all’obiettivo universalistico.

Sarebbe, questo, il modo per iniziare a dare credito a modelli sanitari che, senza venir meno al dovere di garantire la salute, non lo sovrappongono a un modello esclusivamente pubblico e prestazionale.

IBL. Biosimilari e prezzo dei diritti

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IL MERCATO DEI BIOSIMILARI DA GENNAIO A GIUGNO 2018

Nel primo semestre 2018 le 10 molecole biosimilari in commercio sul mercato italiano – Epoetine, Filgrastim, Somatropina, Follitropina alfa, Infliximab, Insulina Glargine, Etanercept, Rituximab, Enoxaparina e Insulina Lispro, per un totale di 45 prodotti – hanno assorbito il 12% dei consumi nazionali contro l’88% detenuto dai corrispondenti originator.

Su base annua il pool dei biosimilari presenti sul mercato nazionale ha fatto registrare una crescita complessiva del 27,7% rispetto al I semestre 2017, calcolata al netto delle new entry, ovvero le nuove molecole biosimilari lanciate sul mercato solo da giugno 2017 (Rituximab, Enoxaparina e Insulina Lispro), a fronte di una contrazione dei biologici originator dell’1,6%.

Riflettori accesi sulle performance delle 3 molecole protagoniste del “sorpasso” rispetto al biologico originatore. A realizzare il maggior grado di penetrazione sul mercato è stato il Filgrastim, i cui 5 biosimilari in commercio assorbono il 94,68% del mercato a volumi (89,35% a valori, a prezzo medio). Seguono le Epoetine (75,39% del relativo mercato a volumi e 62,12% a valori), in commercio in versione biosimilare, alla pari del Filgrastim, a partire dal 2009.

Ancor più notevole la prestazione dei biosimilari di più recente o recentissima registrazione: Infliximab, in versione biosimilare dal febbraio 2015 e titolare nel primo semestre 2018 del 69,75% del mercato a volumi (54,67% a valori); Follitropina alfa, in pista dall’aprile 2015 e oggi titolare del 12,69% a volumi (12,36% a valori); Insulina Glargine -primo biosimilare in commercio da febbraio 2016 – oggi concentra il 17,03% a volumi (12,64% a valori). Risultato anche migliore per Etanercept (in commercio da ottobre 2016), che nel I semestre dell’anno ha assorbito il 29,03% a volumi (23,26% a valori) e il Rituximab, in commercio dal luglio 2017, che nella versione biosimilare concentra già il 40,66% dei consumi (26,28% a valori).

Diversificato ma comunque in crescita il quadro dei consumi a livello regionale. A registrare il maggior consumo di biosimilari per tutte le molecole in commercio sono la Valle d’Aosta e il Piemonte: in entrambe quotano il 41,89% del mercato sul mercato complessivo di riferimento e addirittura l’80,25% del mercato riferito all’insieme delle cinque molecole in commercio da almeno 3 anni (Epoetine, Filgrastim, Somatropina, Infliximab, Follitropina Alfa).

Lo stesso pool di molecole di più antica commercializzazione ottiene consensi di rilievo praticamente in tutte le Regioni (Toscana, 70,24%; Veneto 64,27%; Sicilia 59,52%; Liguria, 72,21%; Emilia Romagna, 63,89%). Fanalini di coda Abruzzo (36,79%) e Calabria (14,95%).

La classifica varia ampliando l’analisi a tutti i biosimilari in commercio: tolto il già citato primato il Piemonte e Valle d’Aosta, seguono in classifica Sicilia (18,82% del mercato complessivo), Basilicata (14,79%), Friuli Venenzia Giulia (13,34%), Toscana (12,72%). Tutte le altre Regioni risultano al di sotto della media nazionale; fanalini di coda Puglia e Umbria che non raggiungono neanche il 5% dei consumi.

Scadenze brevettuali e potenziali risparmi. Secondo una recentissima analisi elaborata dal centro studi IQVIA il valore del mercato dei principali prodotti biologici che perderanno la protezione brevettuale tra il 2018 e il 2022 ammonta a circa 1 miliardo di euro. Per le sette molecole in questione (adalimumab, trastuzumab, bevacizumab, insulina lispro, ranibizumab, teriparatide, pegfilgrastim), in assenza di competizione da parte di alcun biosimilare si stima nei prossimi cinque anni una spesa cumulata di circa 5,6 miliardi.

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