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Persi 13400 posti di lavoro in sette anni. Il sindacato tra incudine e martello

Il segretario nazionale della Filctem Cgil, Marco Falcinelli, parla della crisi occupazionale che sta investendo soprattutto gli informatori scientifici e lamenta difficoltà di interlocuzione con Farmindustria. In vista l’apertura di un tavolo con Assogenerici per esplorare possibilità di travaso di risorse umane ad oggi inconsistenti.L’industria farmaceutica italiana occupa 63500 persone. Negli ultimi sette anni ha mandato a casa 13400 lavoratori (-15%), il 70% dei quali è rappresentato dagli informatori scientifici, particolarmente quelli impegnati nel settore della primary care. Il dato nudo e crudo è contenuto in un documento prodotto a dicembre scorso dalla Filctem Cgil, il sindacato del comparto chimico-farmaceutico, e sopravanza di circa un migliaio di unità quello riferito da Farmindustria per il medesimo periodo.

Trattandosi di persone, famiglie e non (solo) di numeri, il dettaglio non è irrilevante: possibili fraintendimenti a parte, ciò rispecchia un reale problema d’interlocuzione tra l’associazione industriale e il sindacato di categoria, così come rileva Marco Falcinelli segretario nazionale della Filctem Cgil. “Il rapporto associativo dentro Farmindustria è spesso complicato. A seconda che le aziende interessate siano italiane, europee o americane, capita che comunichino prima a noi la volontà di ristrutturare. Spesso Farmindustría lo sa dal sindacato quanti sono gli esuberi…”.

Una premessa è d’obbligo. “Il settore farmaceutico – dice Falcinelli – non è propriamente in crisi. Non c’è un’azienda che abbia i bilanci in rosso. Piuttosto, esiste un gigantesco problema di riorganizzazione, seguito al cambiamento del modello industriale”.

Falcinelli si riferisce al fatto che, fino ai primi anni `90 le aziende assumevano quote importanti di informatori e davano seguito a politiche aggressive di mercato. “Poi i brevetti scaduti, la genericazione delle sostanze, l’attività di ricerca che entra in difficoltà… Ho un dato in testa: agli inizi degli anni ’90 erano identificate circa 200 nuove molecole a stagione, nel 2012 sono state una ventina (27 quelle approvate dall’FDA nel 2013, n.d.r.)”. E le aziende di generici? Assumono? Quali opportunità offrono?

“Da poco abbiamo cominciato a parlare con Assogenerici. Al momento le imprese stanno andando bene ma certo non riescono a compensare quello che sta avvenendo nel mondo del farmaco etico. Non c’è stato travaso di posti di lavoro, neanche l’i% di quelli che si sono persi” conclude Falcinelli.

Se i motivi che giustificano la crisi occupazionale sono sostanzialmente condivisi tra industriali e forze sociali, ovviamente non possono esserlo le strategie espulsive tout court che, va da sé, un buon sistema di relazioni sarebbe in grado di mitigare. In Italia questo sistema è fatto di luci e ombre, ancora secondo Falcinelli: “Nel tempo siamo riusciti a costruire un rapporto importante tanto che il contratto chimico farmaceutico è regolarmente rinnovato ogni due anni con Federchimica e Farmindustria. Tuttavia il modello di relazioni con Farmindustria sconta qualche difficoltà in più.

Loro associano tutti ma rappresentano pochi. Le aziende tendono a fare da sé e a riconoscersi poco nell’organizzazione che deve tener conto di interessi di gruppi americani, italiani, europei.

All’interno di questa divisione le imprese faticano a trovare una linea comune, anche per effetto del rispettivo portfolio prodotti e delle rispettive situazioni di mercato. Certo, tra noi e loro vige la correttezza e la cordialità. Però se chiediamo a Federchimica di intervenire e farsi parte attiva rispetto a un’associata l’operazione è più semplice. Invece le pharma vanno per conto loro”.

Come accennato da Falcinelli, la difficoltà di rappresentanza dipende anche dalla provenienza. “Dagli americani ci arrivano decisioni preconfezionate con margini di contrattazione praticamente nulli. Con le europee è diverso: ad esempio, insieme a Merck Serono abbiamo gestito fasi complicate”. Con le italiane va così e così. “Menarini è un’azienda padronale però nel negli ultimi mesi ha dimostrato un’attenzione importante agli aspetti sociali. Con Sigma Tau, invece siamo arrivati allo scontro: il loro processo di riorganizzazione è in mano a soggetti esterni all’azienda che non hanno avuto rapporti con la storia del gruppo. Con loro è difficile ragionare”.

Pure in tempi di crisi, qualche speranza sempre si accende, così come testimoniano gli investimenti realizzati di recente in Italia, documentati anche in queste pagine di AboutPharma. Cosa fa il sindacato quando scopre che l’impegno industriale non genera nuova occupazione ma anzi prevede un esubero di lavoratori?

“Purtroppo – prosegue Falcinelli – le cose viaggiano in modo separato e spesso inversamente proporzionale. Chi immette capitali nelle società, che siano soggetti che fanno ricerca, finanziarie o big pharma, spesso condiziona l’investimento a riorganizzazioni e ristrutturazioni che prevedono se non il dimezzamento certo la riduzione significativa della forza lavoro.

Il sindacato è sempre tra incudine e martello: da una parte salutiamo con favore gli investitori che mettono capitale, dall’altra siamo costretti a discutere i tagli, cercando di evitare che l’investitore scappi. Il nostro atteggiamento è pragmatico.

Cerchiamo di limitare i danni il più possibile dal punto di vista occupazionale e di non scoraggiare chi viene a investire nel nostro paese. Evento del resto abbastanza raro: aldilà di qualche caso, non siamo un paese attrattivo”.

Rispetto alla fuga di capitali e alle delocalizzazioni del manifatturiero, una delle maggiori motivazioni, storicamente, si riferisce all’alto costo del lavoro in Italia. “Non è quello il deterrente. Il problema principale – sostiene il segretario della Filctem – è l’assenza di un disegno complessivo di politica industriale, che riguarda tutti i settori e anche quello chimico farmaceutico. Purtroppo quest’ultimo è stato considerato per tantissimi anni un settore protetto poiché 1’80-85% della produzione era acquistato dal Ssn. Così dal punto di vista delle imprese si è trascurata e la necessità di competere. Aggiungiamo che negli ultimi vent’anni le politiche di riduzione della spesa sanitaria hanno interessato nove volte su dieci solo il settore farmaceutico, secondo una logica che non condividiamo e che rende subalterna la politica di sviluppo dell’industria alle ragioni di bilancio del paese”.

Il sindacato ravvisa anche altri elementi di sistema che rallentano l’arrivo di capitali e mettono in difficoltà l’industria farmaceutica. “In Italia la burocrazia è ostile. Per insediare un impianto chimico – dice Falcinelli – ci vogliono dai dodici mesi ai cinque anni. In Germania in due mesi si ottengono le autorizzazioni e in sei parte la produzione. Io non conosco un imprenditore che sia disposto a tenere fermi investimenti per milioni di euro per cinque anni, con il rischio che poi il progetto diventi obsoleto e non ha più senso portarlo a termine”.

Un altro tema (più pesante per la chimica che per la farmaceutica) riguarda il costo dell’energia. “che è dal 28 al 32% più alto che negli altri paesi”. Altra piaga: la pubblica amministrazione che non paga. “Nel nostro paese ci sono regioni che rimborsano a 900 giorni! Le aziende forniscono farmaci a ospedali e farmacie, dopodiché se vendono di più di quello che hanno concordato con l’Aifa la legge prevede il rimborso da parte della filiera (aziende, grossisti) che però vede i soldi dopo due anni”.

 

Stefano Di Marzo sdimarzio@aboutpharma.com

14/02/2014 – Pagina 40/41- Aboutpharma Mese  Persi 13400 posti di lavoro in 7 anni

Redazione Fedaisf

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