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Etici più etici.

Finanza etica, commercio etico e, quindi, farmaco etico, non perché soggetto a prescrizione ma perché più rispettoso dei bisogni della collettività, a cominciare da un prezzo ridotto. Questo il senso del tema dibattuto recentemente all’Imperial College di Londra, dove un gruppo di scienziati ha presentato una sua ricetta per ottenere nuovi farmaci a basso prezzo. Il segreto sta nell’alterare leggermente la struttura di una molecola brevettata, quel tanto che basta per aggirare il brevetto e quindi poter vendere il nuovo farmaco al più basso prezzo possibile. In realtà non è solo una dichiarazione astratta: all’Imperial College stanno già lavorando al tweaking (termine che si potrebbe tradurre con elaborazione) di un farmaco usato per l’epatite C cronica. Scelta abbastanza emblematica, sia per la prevalenza a livello mondiale (circa 171 milioni di persone) sia per l’alto costo dei medicinali attualmente impiegati. Ovviamente mettere a punto l’elaborazione non basta, e gli autori della proposta prospettano, per tagliare i costi di sviluppo e produzione, di affidarsi a una società biotech indiana. In questo modo, sostengono, si scenderebbe dagli usuali 800 milioni di dollari a due milioni soltanto.
La proposta del gruppo britannico, al di là delle finalità, appunto, etiche, ha suscitato alcuni commenti negative anche sul piano tecnico-economico. Tra questi, un articolo di Medical Progress Today, a firma di Philip Stevens, e conomista e direttore del settore salute dell’ International Policy Network. Secondo Stevens, la strategia si basa principalmente sull’assunzione che condurre i trial e avviare la produzione in India comporti costi minimi; un assunto, per la verità, corroborato dal fatto che anche molte grandi case stanno delocalizzando in quelle areee. Tuttavia, un’indagine della Rabo India Finance, le case statunitensi che operano nel subcontinente riducono il costo standard di un triala (valutato qui in 16 milioni di dollari) del 60%. Anche assumendo queste grandezze, nota Stevens, si tratta pur sempre di 60 milioni di dollari, cifra lontana da quella indicate all’Imperial College. Ma anche ottenuto il farmaco copia a costi di realizzo, si tratta di ottenere registrazioni e AIC nei diversi paesi, altra questione non propriamente pacifica. Qui la critica economica entra anche nel centro della ragion d’essere dei farmaci etici etici, la diffusione nei paesi in via di sviluppo. Secondo Stevens le autorità regolatorie di queste nazioni sono assai più cavillose di quelle dei paesi occidentali: il Medicines Control Council sudafricano, per esempio, richiede in media 39 mesi per autorizzare un farmaco anche se questo ha già passato il vaglio dell’FDA.
Fin qui le fasi preliminari, poi si tratta di passare alla produzione di massa, e gli stabilimenti che soddisfanono alle GMP non sono economici, nemmeno se finanziati dallo stato, poi c’è la distribuzione e poi il marketing, visto che, piaccia o meno, bisognerà pure far conoscere l’esistenza del farmaco a basso prezzo. Secondo Stevens, tutto questo non può costare due milioni di dollari. Un altro aspetto fondamentale è il fattore tempo. Lo sviluppo di un nuovo farmaco richiede da 8 a 13 anni, tra il momento del laboratorio e quello dello scaffale della farmacia, mentre la durata della copertura del brevetto ormai si aggira in media sui 7-8 anni. Il rischio è che all’arrivo dell’etico “elaborato” sul mercato, il farmaco capostipite sia già un generico, con conseguente caduta del prezzo.
Infine, un’osservazione in puro stile “spiriti animali del mercato”: se già le grandi case investono poco nella ricerca mirata alle malattie dei paesi poveri, nel momento in cui a ogni nuovo farmaco si contrapponesse quello etico, la ricerca già scarsa potrebbe azzerarsi, a favore delle più redditizie malat

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