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Glifosato e bugie. Ma qual è la verità?

Quando si decide che qualcosa è rischioso per la salute e si riesce a farlo passare al grande pubblico, può accadere un fatto pericoloso: e cioè che, per compiacere il pubblico, pure i ricercatori e la stampa facciano di tutto per rafforzarne le convinzioni, contribuendo così ad un disastroso rinforzo di preconcetti sbagliati.

Sta accadendo così con un erbicida, il glifosate, accusato di essere responsabile di ogni nefandezza anche a causa del lavoro di cattivi ricercatori, che utilizzando armi quali la correlazione spuria producono la favola di una molecola che causerebbe di tutto, dalla calvizie al cancro.

L’ultimo lavoro pubblicato su Scientific Reports (e non su Nature, come i soliti pseudoscienziati da tastiera continuano a ripetere) ripreso dalla nostra stampa nazionale con grande enfasi (per esempio qui e qui) afferma che nei ratti il glifosate avrebbe effetti sulle generazioni future, causando una serie di problemi molto seri alla salute.

C’è da dire che la stampa nazionale, in questo caso, non può essere accusata univocamente di cattivo giornalismo: a creare il caso hanno contribuito infatti i comunicati stampa della stessa università dove lavora il gruppo di ricerca che ha pubblicato l’articolo.

Tuttavia, bisogna che stampa e pubblico imparino una fondamentale lezione: la pubblicazione su una rivista scientifica non implica affatto che un lavoro sia definitivo o che qualcosa sia provato. Tra l’altro, questo lavoro è stato finanziato da una fondazione già nota per finanziare pseudoscienza, per esempio sul clima e sulle cellule staminali.

In ogni caso, gli articoli scientifici bisogna leggerli, e bisogna avere le competenze per farlo; non acriticamente utilizzarli come clava nelle proprie lotte ideologiche.

E’ proprio quello che abbiamo fatto con i colleghi del gruppo SeTA per il lavoro in questione, ed abbiamo scoperto non solo che è falso, ma pure che il gruppo di ricerca che lo ha scritto non è nuovo a pubblicare dati inaffidabili o manipolati.

Riassumendo per punti, ecco quello che abbiamo trovato:

  1. Il lavoro di Skinner et al. presenta un evidente e sistematico squilibrio nel numero di individui a favore dei ratti di controllo; ciò invalida il risultato e impedisce di trarre conclusioni dall’analisi;
  2. Alcuni errori di calcolo, una volta corretti, mostrano l’assenza di significatività per quel che riguarda le differenze di incidenza di tumori fra i discendenti di ratti esposti al glifosato e i ratti di controllo;
  3. Lo stesso lavoro cita in supporto un precedente lavoro dello stesso gruppo, sulla cui validità sussistono forti dubbi, dato che tale lavoro riutilizza gruppi di animali di controllo identici a quelli di un terzo lavoro dello stesso gruppo, salvo un singolo gruppo che se ne differenzia;
  4. In altri due lavori dello stesso gruppo, non collegati a quello sul glifosate, si osserva di nuovo il “riciclo” dei dati di gruppi di animali di controllo in esperimenti e pubblicazioni diverse;
  5. In altri due lavori dello stesso gruppo, non collegati a nessuno di quelli in precedenza citati, si osserva l’illecita duplicazione di western-blot, sia all’interno di uno stesso lavoro che fra lavori differenti.
  6. La dose ritenuta sicura per l’uomo è stata fissata partendo proprio dai “developmental toxicity studies”, risultando 50 volte inferiore a quella somministrata alle cavie da Skinner et al., per di più per via intraperitoneale, cioè totalmente irrealistica;
  7. Considerando un uomo dal peso di circa 70 kg, la somministrazione media giornaliera misurata dai report più accreditati si situa fra i 40 e i 60 ng/kg, ovvero fra le 400 mila e le 600 mila volte circa al di sotto della dose usata negli esperimenti di Skinner et al., oltretutto somministrata per via intraperitoneale – e per una settimana consecutiva – in diretta prossimità dei feti in via di sviluppo;
  8. Per le malattie renali i dati ottenuti da linee di ratto non sono da considerarsi validi per una valutazione del rischio, in quanto è accertata una predisposizione naturale di questi roditori a sviluppare tali patologie indipendentemente dall’agente somministrato; differenze anche significative tra piccole popolazioni campione, quali quelle usate nello studio, sono quindi da attendersi come mera fluttuazione statistica, e non possono essere attribuite al glifosate.
  9. Il meccanismo molecolare proposto dagli autori fa confusione tra diversi fenomeni ben distinti;
  10. I dati ottenuti nelle generazioni F2 e F3 (non esposte) sono contraddittori nei confronti dello stesso meccanismo proposto.

Trovate l’analisi completa qui. Buona lettura!

cattivi scienziati – 2 maggio 2019 – di Enrico Bucci

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Redazione Fedaisf

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