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Perché la stupidità aziendale è un male necessario nelle organizzazioni complesse

La standardizzazione dei comportamenti serve a mantenere l’uniformità di azione tipica delle multinazionali che operano sul mercato globale. La prospettiva cambia nelle imprese locali: qui l’assenza di “creatività” può mettere a rischio la vita stessa delle società. Dal numero 161 del magazine

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Spicer ed Alvesson nel loro lavoro “The stupidity paradox” hanno approfondito, tra gli altri, il concetto della cosiddetta “stupidità funzionale” definendola come l’incapacità di (anche validi) dirigenti di mettere in discussione le norme e le attese della propria organizzazione aziendale. In ciò il paradosso: manager molto intelligenti, competenti e capaci che pare subordinino le proprie capacità per assecondare le dinamiche aziendali piuttosto che indirizzarle all’innovazione e allo studio delle strategie. In questa prospettiva, la stupidità aziendale risiederebbe, proprio, nello svolgimento di attività in modo acritico e, soprattutto, meno efficiente (se non del tutto inefficiente o inutile). In effetti, il corretto inquadramento del fenomeno tratteggiato non può prescindere dalla prospettiva di analisi e di valutazione: molto dipende dalla “posizione” dell’osservatore e si scoprirà che poi tanto “stupida” non è!

Due declinazioni del concetto

Pertanto, il sintomo della “stupidità” deve essere letto almeno attraverso due prospettive: 1) l’azienda multinazionale e manageriale e 2) l’impresa locale ed imprenditoriale. A tale scopo, si pensi, ad esempio, a un’azienda multinazionale che operi, al contempo, su più mercati con prodotti/servizi omogenei. In questa prospettiva “globale”, il top management ha un’esigenza di controllo sull’organizzazione dovuta alla necessità di garantire l’uniformità di comportamenti, la qualità del prodotto, l’erogazione del servizio, altro, a livello globale. Si perdoni la semplificazione, ma è ovvio che lo stesso prodotto o servizio, al netto di possibili e/o necessarie declinazioni locali, dovrà avere i medesimi connotati “dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”.

L’uniformità dei sistemi complessi

L’azienda è considerata e deve essere percepita come unitaria: si tratta di un indispensabile valore intangibile dell’impresa globale moderna. Potremmo mai immaginare Amazon, Coca Cola, Ikea, o qualsiasi altra realtà multinazionale che non presenti tratti comuni e chiaramente identificabili con le altre aziende appartenenti al medesimo brand? Come può, allora, il manager globale garantire tale unitarietà? La risposta è affatto semplice ma, ai nostri fini, due concetti chiave sono utili: segregazione delle funzioni, formalizzazione e standardizzazione dei processi aziendali. Attraverso la segregazione, si governano i conflitti di interesse aziendali e si mettono a comune servizio competenze e responsabilità complementari, necessarie per la definizione dei processi aziendali e loro conseguente formalizzazione e standardizzazione.

Si alimenta, è vero, la burocrazia ma si creano i necessari presupposti della continuità aziendale in prospettiva multinazionale. Inoltre, nello scenario globale, eventuali best practice o lesson learned da “incidenti” devono essere analizzati e implementati su tutte le affiliate. Anche queste nuove attività possono essere lette, semplicisticamente, come stupidità aziendale: “che senso ha questo ulteriore controllo? Perdo solo tempo”… è la prima frase che si ascolta in azienda. La seconda è: “prima facevamo così ed era molto meglio”… il frasario è ampio e ben noto a tutti i lettori.

Un metodo per garantire il rispetto delle regole internazionali

Non da ultimo, la descritta necessità di controllo è strumentale a garantire il rispetto della normativa di riferimento e l’integrità dei comportamenti dei dipendenti e collaboratori dell’ente. Si pensi, ad esempio, alle politiche, e relativi controlli, in materia di compliance, di anti-corruption ed anti-bribery ed altro ancora dettati sia da normativa esterna (ad esempio: Fcpa, Uk bribery Act, D.Lgs. 231/2001, altro) che da scelte aziendali. In sintesi: nelle multinazionali comportamenti apparentemente senza senso rispondono – sovente – ad una necessità diffcilmente percepita (o conosciuta) a livello locale. Servono, ecco il paradosso, a garantire la continuità del gruppo nel modo più efficiente ed efficace possibile (non in assoluto). La lamentela, corretta, è sulla capacità dei gruppi di condividere e di spiegare a livello locale il sottostante di talune decisioni (e, quindi, le conseguenti standard operating procedures) che le fanno apparire “stupide” con il rischio di essere implementate non con convinzione ma come burocrazia, mero adempimento.

Il danno è duplice. A livello di gruppo, si crede di aver mitigato un rischio e normalizzato dei comportamenti; a livello locale, il rischio non è percepito come tale e non è gestito nel modo migliore. Ma così si limita la genialità dei manager, soprattutto locali. Al fine di evitare queste possibili conseguenze nelle organizzazioni evolute vi sono specifici dipartimenti dedicati alla creatività che garantiscono un continuo approccio al mercato in linea con l’evolversi delle sue dinamiche (ivi incluse le sempre più comuni acquisizioni di aziende innovative). Nelle realtà locali, imprenditoriali, la prospettiva di analisi è differente e ci limiteremo solo a un accenno. Se è l’imprenditore a decidere e i manager lo assecondano in modo acritico siamo di fronte a un tanto comune quanto grave caso di “insensatezza” aziendale, la cui conseguenza estrema è la stessa sopravvivenza economica dell’impresa.

Un fenomeno tra fisiologia e patologia

In conclusione. La stupidità aziendale esiste. In taluni casi è fisiologica, necessaria, alla crescita ed allo sviluppo aziendale: ad un’analisi più attenta, ci si rende conto che poi tanto stupida non sia, anzi! In altri, è patologica ed è un prodromo della crisi di impresa nel lungo andare. Per comprendere con quale tipo di stupidità ci stiamo confrontando è necessario definire la giusta dimensione dell’osservazione: la prospettiva può far cambiare, anche notevolmente, il giudizio finale. Un connotato dell’intelligenza aziendale, in realtà, si rinviene nella capacità di spiegare il perché di talune scelte – apparentemente stupide – al fine di ottenere la condivisione di chi dovrà eseguirle ma anche di ascoltare le loro necessità e ricevere eventuali proposte. La saggezza aziendale, infine, è propria di chi è in grado di riconoscere un errore, ascoltando la “base”, e di porvi rimedio. Richiamandoci a Fernando Pessoa possiamo dire che nella stupidità c’è tanta intelligenza.

Notizie correlate: Quanto costa lo “yes man”: se la stupidità entra nell’organizzazione aziendale

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Nota: Secondo i risultati del HR Trends and Salary Report 2016, la carenza di competenze interessa il 97,9% delle organizzazioni italiane.

Redazione Fedaisf

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